Scenari economici

Il futuro del lavoro

“Il futuro del lavoro” è il titolo di una iniziativa dell’OCSE in programma a Parigi il 14 gennaio. Evento di altissimo livello, che non impedirà a nessuno di spararle quanto più grosse gli verranno in mente, poiché il tema si presta. Non è vero? I politici parleranno di robot, conflitti macchine/uomo, fantascienza di bassa lega, in qualche misura. Proviamo allora ad essere sobri noi, in questa sede almeno

Pubblicato il 07 Gen 2016

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Partirei con il far notare che l’OCSE è l’organizzazione di 34 tra i Paesi più ricchi al mondo. Il che delimita subito l’agenda dei lavori e ci fa capire che del futuro del lavoro negli altri circa 150 Paesi non si parlerà. Bene. Si parlerà però di temi importanti in questo emisfero quali l’impatto della sharing economy, l’evoluzione dei rapporti contrattuali, le nuove competenze, il rapporto tra macchine e lavoro… Tutti temi importanti, oltremodo importanti. Anche se ignorano i quattro quinti del mondo.

Il futuro del lavoro. Che cosa è il lavoro? Imparo dal Treccani che esso è “…l’applicazione delle facoltà fisiche e intellettuali dell’uomo rivolta direttamente e coscientemente alla produzione di un bene, di una ricchezza, o comunque a ottenere un prodotto di utilità individuale o generale.” (Definizione di uso comune, mi si avverte. Che è quella che cerco).

E allora, per cominciare, come saranno in futuro queste “facoltà fisiche e intellettuali dell’uomo” (e della donna, presumiamo si intenda dire) che sarà possibile utilizzare in produzione? E poi: quali che esse siano, saranno utilizzate nel quadro delle tecnologie esistenti o comunque già ‘visibili’ oggi, o ipotizziamo una qualche rivoluzione tecnologica che potrebbe uscire dal quadro del prevedibile? In breve, e in un linguaggio più prossimo a quello dell’economista: come evolverà, e quali caratteristiche acquisirà, l’offerta di lavoro? E parallelamente: come evolverà, e quali caratteristiche acquisirà, la domanda di lavoro? Senza fantascienza.

L’offerta di lavoro. Vi sono pochi dubbi sul fatto che l’offerta di lavoro sarà in proporzioni crescenti offerta di lavoro qualificato, crescentemente ricco di conoscenze e competenze, mobile geograficamente e anzi globalizzato. Come sappiamo queste cose? Le conosciamo perché sappiamo che quando si tratta dei propri figli i genitori se ne fregano (finché possono) delle crisi e dell’austerità, vogliono che i figli studino, che attraverso l’istruzione possano accedere a quei livelli della scala del reddito e della qualità della vita cui loro stessi non hanno potuto accedere. Se poi le attività effettivamente svolte non saranno del grado di nobiltà previsto al momento di scegliere corso di studi e scuola, pazienza: questo è un fatto assolutamente ovvio.

La domanda di lavoro. Se un’offerta di lavoro crescentemente qualificata troverà o meno la sua domanda, non è fatto semplice da prevedere. Direi che a questo proposito esistono due filoni di pensiero: il filone del progresso tecnico ‘perenne’ e il filone del progresso tecnico ‘in difficoltà’. Appartiene al primo filone il pensiero del professor Joel Mokyr che, in una splendida lezione tenuta al Politecnico di Milano il 30 novembre 2015, mostrava come l’interazione virtuosa di pensiero scientifico e ingegneria produca terreni sempre più fertili per l’innovazione e il progresso tecnico. Appartiene al secondo filone il pensiero del professor Paul Krugman il quale, in una splendida lezione tenuta al Politecnico di Milano il 28 ottobre 2010, esprimeva un forte scetticismo circa la capacità della rivoluzione digitale di generare crescita e sviluppo comparabili a quelli prodotti, ad esempio, dalle ferrovie. Il quale Krugman però, solo poche settimane fa, scriveva sul suo blog per il New York Times che i recenti successi ottenuti da SpaceX e dalla Nasa stanno spostando di nuovo il fuoco dell’attenzione ‘dalla comunicazione ai prodotti’, con ciò temperando non poco il proprio pessimismo.

Il mismatching. Parola che va molto di moda. Parola favorita dalla destra statunitense quando deve discutere di disoccupazione. Di conseguenza, anche se con qualche anno di ritardo, parola molto cara alla destra italiana. Perché? Perché è una parola che consente di scaricare la responsabilità della disoccupazione ‘intellettuale’ sull’offerta di lavoro, cioè su quei giovani che non studiano quello che dovrebbero, quello cioè per cui c’è lavoro. L’esempio? Studiate da idraulico, che di rubinetti da riparare ce ne saranno sempre. Incredibile.

La banale verità è che il ‘mismatching’ è esattamente il risultato della libertà che l’economia capitalistica concede agli individui di scommettere su di un tipo di studi anziché un altro, un tipo di carriera anziché un altro e, dal lato della domanda, di un prodotto anziché un altro. Curiosa, una destra che avrebbe voglia di una situazione pianificata e una botta di stalinismo che generi la piena occupazione!

Conclusione?

Ho scritto recentemente su questo blog un pezzo sulla sharing economy e uno sulla gig economy. E oggi, grazie all’OCSE, ripenso a quei pezzi e ne apprezzo i messaggi:

  1. Il lavoro sarà proporzionalmente sempre più qualificato ma anche proporzionalmente sempre più occasionale, non protetto, non duraturo;
  2. Ciò non sarà un fatto di classe, nel senso che sarà così per le fasce basse di retribuzione (camerieri) come per quelle alte (sviluppatori);
  3. La differenza vera la farà, ancora una volta, la proprietà: un proprietario di appartamenti che affitta camere sarà ad un tempo locatore e lavoratore. Lavoratore protetto dalla proprietà contro le oscillazioni del mercato del lavoro, sempre più in modalità gig.

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