L’attenzione al fenomeno del greenwashing, rimasto sottotraccia nei decenni in cui è derivato da un approccio manipolativo alla CSR (Corporate Social Responsibility), se non da una vera e propria malafede nei confronti di cittadini e consumatori, sta crescendo in modo esponenziale. La CSR è stata spesso interpretata come un’opportunità di crearsi una reputazione e darsi un alone di azienda attenta alle tematiche ambientali. E, grazie a questo, dare così l’impressione, spesso in modo deliberato e a volte credendo nella storia che si racconta, di esserlo di più di quello che lo si è nella realtà. Ora, diventa sempre più importante per le imprese prendere atto del rischio crescente che ricorrere al greenwashing comporta, proporzionale alla capacità dei cittadini/consumatori di riconoscerlo. E il primo passo per le imprese è imparare a riconoscerlo esse stesse.
Cos’è il greenwashing e quali comportamenti lo caratterizzano
Il greenwashing (che generalmente viene tradotto come ecologismo o ambientalismo di facciata) indica la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale.
Ecco un elenco di comportamenti che caratterizza questo fenomeno, e che può essere utilizzato come strumento per un check up del proprio modo di comunicare:
– l’assenza di dati e informazioni che sostengono quanto viene dichiarato nei propri messaggi
– la genericità delle informazioni sul prodotto e quindi la mancanza di chiarezza sulle sue caratteristiche. Ne è un esempio la generica definizione di prodotto naturale
– l’enfatizzazione del ruolo che hanno caratteristiche marginali del prodotto, ad esempio un suo ingrediente, al fine di fare apparire l’intero prodotto come naturale o ecologico, ovviamente sottacendo quanto di “verde” in quel prodotto non c’è
– la realizzazione di prodotti “ecologici” nelle loro caratteristiche proprie ma attraverso processi di produzione che non lo sono
– l’enfatizzazione di iniziative che non trovano corrispondenza nel comportamento complessivo dell’impresa. Ad esempio, una banca che compensa le sue emissioni ma poi investe nel settore petrolifero, o un’impresa che sovvenziona un’organizzazione umanitaria per la salvaguardia dei bambini, ma non si preoccupa di verificare cosa accade nella sua supply chain in relazione allo sfruttamento del lavoro dei minori
– l’auto certificazione dei dati e delle informazioni, cosa che avviene anche utilizzando simboli creati dall’impresa ma che ricordano quelli delle certificazioni ufficiali
– l’uso di codici, immagini e parole associabili all’ecologia senza che questi siano giustificati dalle caratteristiche reali del prodotto; ad esempio, l’uso del colore verde o del suffisso “eco” o di immagini di natura.
Un’altra lista viene proposta in questo TEDx talk di Juell Johnson:
Al di là di queste semplici liste, che però qualche spunto lo danno già, chi è interessato ad avere una visione organica del fenomeno del greenwashing può leggere “Verde, anzi verdissimo” di Rossella Sobrero, la più completa descrizione del fenomeno e dei casi che lo caratterizzano.
E tanto per divertirsi un po’ ecco come Joel Makeover propone di comportarsi se si vuole diventare un greenwasher professionista.
Le tante, diverse forme di greenwashing
Peraltro, in un’epoca in cui l’attenzione a temi che hanno a che fare con i diritti e il bene comune cresce così tanto, il greenwashing è stato affiancato da altri fenomeni che strumentalizzando quei temi rappresentano la stessa forma di deriva.
Assistiamo infatti ad un ampliamento delle forme di washing oltre i confini dei temi ambientali o in modo creativo rispetto agli stessi. Della catalogazione di queste nuove forme di washing si è occupato in un suo post su Linkedin Bruno Giussani, Global Curator di TED, il che mi ha stimolato a ragionarci su e a integrarle. A proposito, se chi legge ha voglia di confrontarsi con un pensiero libero e intelligente seguite Bruno QUI.
Ecco quindi le tante forme di washing a cui assistiamo:
– l’”ethics washing”, che si manifesta quando si dà l’impressione di affrontare in modo diffuso le problematiche etiche mentre questo avviene limitatamente ad alcune circostanze specifiche
– il “purpose washing”, che consiste nel dichiarare esplicitamente un purpose che corrisponde al “sentimento” del momento, senza che siano davvero sostenuti da azioni reali e dalla cultura aziendale
– l’”SDG washing”, che consiste nell’utilizzare il proprio contributo positivo ad alcuni degli SDG nascondendo l’impatto negativo su altri
– l’”ESG washing”, per il quale la mera adozione di un sistema di misurazione basato su indicatori di impatto ambientale, sociale e di governance, viene utilizzata per dare l’idea di essere di per sé sostenibili, portando a confondere il sistema di misurazione con la performance
– lo “youth washing”, quindi l’associazione ai giovani attivisti per l’ambiente, senza che questo significhi un vero e concreto impegno alla lotta al cambiamento climatico
– il “cause washing”, che ricorre quando si proclama il sostegno ad una causa sociale che di fatto si manifesta in iniziative sporadiche che non si riflettono in un impegno profondo dell’impresa. Ne è stato un esempio il “black washing” a cui abbiamo assistito in occasione dell’esplosione di attenzione generato sul tema dei diritti delle persone di colore grazie al movimento “Black lives matter”
– il “pink washing”, che consiste nello strumentalizzare i movimenti femministi e, il peggio del peggio, la ricerca sui tumori al seno
– il “rainbow washing”, che sfrutta l’attenzione crescente ai temi dell’uguaglianza per caratterizzare un’impresa come sensibile agli stessi, senza che questo si rifletta o corrisponda a programmi concreti che la promuovano attraverso il supporto ai movimenti LGBT o l’adozione degli stessi principi di uguaglianza all’interno dell’impresa.
La “brutal honesty”
All’opposto di tutte queste forme di “washing” c’è il concetto di “Brutal Honesty”, quello secondo cui l’azienda è disponibile a pubblicare, proattivamente o su richiesta, tutte le informazioni su quello che ancora non fa bene. Siamo molto lontani, adottarlo significherebbe superare una resistenza culturale difficile da scalfire, ma è un concetto che quanto meno una riflessione la merita. Per esercitarsi consiglio di porsi una domanda: ”Cosa fa la mia impresa che non vorrei mai che fosse di dominio pubblico?”