Sabato scorso è scomparso gda.
Ho avuto la fortuna di conoscere gda poco più di vent’anni fa, a Milano, quando il mio relatore di laurea, il prof. Giulio Giorello, ordinario di Filosofia della Scienza, mi mandò da lui per avviare un dialogo che avrebbe portato poi a una laurea interdisciplinare (Filosofia e Scienze dell’informazione). Mi presentai nel corridoio antistante il suo ufficio in via Comelico, gli spiegai chi mi mandava, gli porsi la lettera di presentazione che il suo collega aveva scritto per l’occasione. gda la prese, la stracciò e la buttò nel cestino. Colto il mio disappunto, fece: “Lì dentro c’erano quattro o cinque righe di Giorello che dice che sei uno studente meritevole eccetera eccetera, non c’è bisogno che le legga. Allora, dimmi cosa vuoi fare”. Fu mio correlatore e mi aiutò tantissimo a dipanare il tema sperimentale (e velleitario, aggiungo ora) della tesi, intitolata: “La recente evoluzione dei media digitali e le sue conseguenze sul pensiero filosofico”. Tesi discussa nel 1997, anni luce fa, modem che sfrigolavano accanto a computer ingombranti.
Lavorammo tanto insieme. Dovetti anche sostenere il suo esame, “Elaborazione testi letterali” e, per farlo, mi costrinse a tenere ai suoi studenti una lezione su Wittgenstein e gli ipertesti. Testi che rimandano ad altri testi, spiegati da uno studente in mezzo ad altri studenti, un modo molto strano di impostare un esame universitario. gda era un promotore, provocatore, portatore (sano no, non avrebbe apprezzato di essere definito sano, troppo statico, troppo conservativo come termine) del virus della condivisione e della complessità. Lo era profondamente, sempre innescando considerazioni in altri campi, moltiplicando i livelli di analisi, sovrapponendo i temi e le strategie per affrontare qualsiasi ragionamento. Era un tecnologo nel trivio e un umanista nel quadrivio. Era costituitivamente interdisciplinare. Indisciplinato tra le discipline circoscritte. A suo agio nella fuzziness. La logica fuzzy, un altro suo pallino, insieme alla fusione fredda.
Il suo ufficio era un’agorà, dove incontravi anche dieci persone per volta, sedute sui tavoli, su pile di tesi, sul cestino della carta. Anzi, su quello ci si sedeva spesso lui, lasciando la sua poltrona all’ultimo arrivato. Non riceveva mai nessuno da solo, perché credeva profondamente nel potere dello scambio di conoscenza e in maniera così vera e non retorica che ti toccava sul serio di parlare del motivo per cui eri lì e di farlo davanti a tutti quegli sconosciuti, che tu fossi un studente alle prese con una dispensa d’esame, un ricercatore nel bel mezzo di un esperimento o un amministratore delegato che stava implentando una nuova business unit. Non ho mai capito se, per via di quella promisciutà imposta da gda, fossimo più imbarazzati noi studenti o invece gli adulti in giacca e cravatta. La mia laurea stessa fu un salto e un ponte, tra filosofia e informatica, per volere di Giulio Giorello e di gda, che mi raccontò che la discussione a porte chiuse per stabilire il voto non era stata proprio una passaggiata di salute. Ancora steccati, campanili, accademici che difendevano prerogative medievali. Quel genere di interdisciplinarietà era ancora ritenuto un po’ blasfemo nei cortili dell’Università degli Studi di Milano.
In quei mesi furono seminati i primi punti, quelli che Steve Jobs diceva che si possono mettere in fila solo guardando indietro. Lì inizio il percorso di incubazione di ciò che quasi 20 anni dopo avrebbe portato alla nascita della mia startup: Oxway. E quell’incubazione, lunga e certamente inconsapevole nei primi anni è proseguita poi in tante passeggiate col mio amico Gianni, la domenica mattina, nei vialetti di Milano 2 e nei campi circostanti. Andavo a trovarlo, si passeggiava, si chiacchierava. Mi rendevo conto, confesso, di comprendere realmente solo una piccola percentuale di quello che diceva, ma era come chiacchierare con qualcuno appena tornato dal futuro. A volte prendevo appunti per non scordare concetti complessi e affascinanti, finché un giorno mi pregò di non farlo, chė ci sarebbe stata una selezione darwiniana nella mia testa e sarebbero sopravvissuti solo i concetti di cui avevo bisogno, inutile tenerne in vita altri artificiosamente, disse. L’ho visto ancora pochi giorni fa, assieme a una persona molto speciale di cui avevo sempre sentito parlare da lui, che tuttavia non avevo mai incontrato all’epoca. Siamo andati assieme a trovarlo, per l’ultima volta. Abbiamo parlato della sua malattia, ma poco, ché voleva fare discorsi di lavoro, di vita.
gda, rigorosamente minuscolo, era il professor Gianni Degli Antoni. Per tutti, ben prima dell’era degli hashtag, era semplicemente gda. Come ha scritto qualcuno in questi giorni nella pioggia di post sul suo profilo facebook, gda ha inventato internet in Italia. Più formalmente, tra le altre cose, ha fondato la facoltà di Scienze dell’Informazione nel 1986 nonostante una parte della comunità dei fisici, di cui faceva parte, osteggiasse profondamente l’idea di rendere Facoltà ciò che ritenevano essere una mera funzione. Un po’ come se qualcuno avesse proposto agli ingegneri idraulici la laurea ad honorem per tutti gli idraulici, quelli che aggiustano i lavandini intendo. Gli steccati fra le conoscenze gda li ha sempre piallati senza pietà. “Io non so che lavoro faccio,” – mi disse un mattino a spasso – “perché cambio lavoro ogni giorno”. Lavorava per la Conoscenza. Ha lavorato sempre per la Conoscenza. Ne è stato catalizzatore e portatore e ammiratore. Gli ho detto che la prossima volta sarei andato a trovarlo a casa. Una promessa che non potrò mantenere.