L’idea di fondo è senza dubbio lodevole. Anzi, fermandosi all’idea di un Fondo Nazionale per l’Innovazione ci si dovrebbe solo rammaricare che non sia stata promossa prima a causa di lentezza, mancanza di inventiva (che per l’innovazione non è proprio una carenza da poco) e di coraggio (altro ingrediente non secondario per l’innovazione). Chè la politica per l’innovazione in Italia soffre dai tempi del Ministero Stanca; uno dei pochi – insieme al recente Ministero Calenda – ad aver realizzato policy adeguatamente contemporanee.
Ciò premesso, e trovato finalmente un punto d’appoggio “rimane” il problema di sollevare il mondo ossia di convertire l’idea in un vero e proprio progetto “azionabile”; e poi di convertire il progetto esecutivo in realizzazioni molteplici, nessuna delle quali semplice. È in questo “imbuto” che si annidano, almeno nel 90% dei casi, le ragioni dell’insuccesso di una policy pubblica ovvero le cause di policy che conducono a risultati notevolmente inferiori alle attese. Insuccesso e underperformance da scongiurare, in una fase che per la prima volta nella storia vede gli investimenti in venture capital nel nostro Paese raddoppiare e crescere a un tasso che – sempre per la prima volta – riduce il gap dell’Italia con tutte le altre economie comparabili.
Insomma il momento sembrerebbe proprio quello giusto, considerando che del concept di Fondo Nazionale per l’Innovazione (FNI) si discute da almeno un decennio. La presentazione di Torino, tuttavia, ha acceso una serie di “riflettori”. E ogni riflettore illumina un rischio da non sottovalutare e sui quali lavorare in fase di progettazione esecutiva e di realizzazione. Di seguito alcuni.
Fondo Nazionale per l’Innovazione: i rischi da non sottovalutare
1. Lo Stato Imprenditore
Ripescando il concetto di Stato “imprenditore” si dimentica l’evidenza dei tanti potenziali danni di uno Stato che non si limita ad abilitare e sostenere in via “indiretta” gli operatori di mercato, controllandone l’operato, ma vi si sostituisce. Gli interventi statali a sostegno dell’innovazione che funzionano meglio sono di due tipi:
– con lo Stato che lavora come cliente demanding e “lead user” di tecnologie – Ministero della Difesa, Ministero degli Interni e Ministero della Salute sono le unità elettive del cliente Stato “innovatore” -. Non bisogna per forza essere un’economia di guerra come Israele per “tirare” la volata delle start-up tecnologiche; basta dichiarare guerra alle malattie, al degrado ambientale o alle iniquità sociali per attivare i “benefici” di un’economia di guerra;
– con lo Stato che abilità lo sviluppo di tecnologie e venture capital, investendo significativamente su quelli che la teoria economica definisce “public goods”, o anche solo beni di interesse pubblico, e al contempo modula gli investimenti, rigorosamente indiretti, sulla traslazione della curva rischio-rendimento naturale della Finanza per l’Innovazione. Si tratta, come noto, di ricorrere a co-investimenti che concedano ai privati rendimenti preferenziali e li proteggano dal rischio (in misura ragionevole si intende – e.g. liquidation preference modulabili a piacere). Insomma lo Stato diventa imprenditore producendo Mercato (riducendo il rischio e la portata dei fallimenti di Mercato).
L’idea di uno Stato – o di sue pur prestigiosissime derivazioni – che investe in via diretta in mercati che possono essere molto ben sviluppati da operatori privati, invece, è estremamente rischiosa.
2. Una regia è regia
Se davvero si vuole sostenere la crescita del venture capital di qualche ordine di grandezza allora ci si deve “limitare” a investimenti indiretti volti a moltiplicare numero e dimensione degli operatori privati, estendendo così l’effetto di leva finanziaria degli investimenti indiretti pubblici su quelli privati e istituzionali. La ratio è semplice ed è simile a quella di un’impresa che non serve direttamente i suoi clienti (start-up) ma usa una rete di intermediari per servirne un numero maggiore, in tempi più contenuti e, in molti casi, anche meglio. Si potrebbe obiettare che non vi sono sufficienti “intermediari” specializzati, ma come dimostra la dinamica degli investimenti in venture capital nell’ultimo anno gli operatori specializzati ci sono, aumentano per numero e dimensione e sono sempre più abili nel gestire co-investimenti con altri operatori europei e internazionali.
Un ruolo da regista “puro”, peraltro, limita il rischio della naturale distorsione che un attore pubblico sempre produce se agisce come attore privato: il rischio di sottrarre ai privati buoni deal o di investire su deal che i privati non concludono semplicemente perché non sono buoni deal (si sprecano così risorse).
Del resto non sono tanti i casi in cui un ottimo regista è anche un ottimo attore. Soprattutto in un mondo in cui il regista ha a disposizione un numero elevatissimo di tecniche e di strumenti per fare al meglio il suo lavoro, producendo e combinando una varietà tendenzialmente infinita di effetti. I modelli di regìa canadesi e francesi sono certamente ottimi esempi. In Canada, peraltro, nella progettazione prima e nella gestione poi di questa policy ha avuto un ruolo di primissimo piano una donna italiana (Senia Rapisarda, non sarebbe male consultarla).
3. Maggiore è il numero di iniziative più forte è il bisogno di integrazione con risorse complementari che rendano le iniziative davvero efficaci
L’incentivo ad assumere Chief Innovation Officer funziona se ci sono strategie e modelli organizzativi adeguati a gestire l’open innovation; e se la strategia del Fondo dei Fondi per il Technology Transfer (un Itatech-like) è chiaramente finalizzata ad alimentarla. Insomma, bene l’idea di incentivare questa evoluzione strutturale nel management dell’innovazione nelle imprese italiane ma meglio se la misura è connessa a un indirizzo strategico del Fondo di Fondi per il Technology Transfer, che dovrebbe avere quale missione proprio “feeding open innovation“. E ancora meglio se, sempre in logica di risorse complementari, si riattivano con ancora maggiore energia gli inventivi alle imprese – sull’esempio di quanto fatto dal Ministero Calenda – per acquisire innovazione in modalità “plug-in” di spin off e start-up a diversi livelli di sviluppo. Solo in questo modo si potrà davvero accelerare il trasferimento di innovazioni tecnologiche in misura idonea a far crescere la produttività delle imprese e generare rendimenti economici e psicologici per il mondo della ricerca italiano.
4. La proliferazione di “certificazioni”, “qualificazioni”, “registri” (ad esempio quello ipotizzato per i business angels) serve davvero?
I censimenti sono utili ma sono “foto spontanee” non “foto in posa” e quindi vanno progettati come tali, altrimenti sono rappresentazioni distorte della realtà. I dati sul bassissimo tasso di fallimento delle start-up innovative registrate al MISE e quelli sull’ancora più basso tasso di successo nella raccolta di capitali dello stesso database generano legittimi dubbi su cosa si stia fotografando. Insomma il rischio di rappresentare un soggetto “fotoshoppato”, che non produce effetti reali è elevato. E di percorsi da tanto rumore per nulla ne abbiamo già avuti.
5. Il rischio della damnatio memoriae, che porta ad agire senza aver capito prima che cosa ha funzionato e che cosa no. E soprattutto perché
Ad esempio il Fondo di Fondi “HT Sud” ha funzionato o no? Quante start-up sono nate e hanno avuto successo grazie agli investimenti del Fondo di Fondi? Cosa potrebbe essere replicato e cosa migliorato? E degli investimenti indiretti del Fondo Italiano di Investimento? E quelli ibridi di Invitalia Ventures? E l’originale sistema di investimento indiretto di Lazio Innova?
Non è raro che l’idea o il progetto siano quelli giusti ma la loro realizzazione sia fallita in qualcosa. Perché accantonare tutto, a partire dall’idea? Perché non sforzarsi di capire cosa migliorare e invece di ricominciare tutto daccapo a testa bassa?
Un adeguato e rigoroso assessment di quanto fatto negli ultimi dieci anni – con dati desk e field e coerenti dashboard di misurazione delle performance – potrebbe consentire di capire cosa ha funzionato, cosa non ha funzionato, cosa potrebbe funzionare meglio, cosa ha senso replicare. E’ così che la conoscenza si cumula e si traduce in competenza e capacità, e quindi in potenziale sviluppo.
6. Il sistema messo in piedi è – sulla carta – imponente, quantomeno per il nostro Paese. Si deve quindi prevedere che ci siano percorsi massivi e di continua alimentazione del dealflow
I “tecnopoli” straordinariamente produttivi, nonostante lo stato di bassa autostima in cui qualche volta ricadiamo, nel nostro Paese non mancano, almeno in nuce. Manca l’interazione fra i serbatoi di innovazione tecnologica e quelli di innovazione imprenditoriale. E quindi sui grandi filoni del made in Italy perché non prevedere altrettanti “tecnopoli” quali luoghi fisici di intersezione fra gli stakeholder dell’innovazione? Un progetto del genere era stato sviluppato sul “food&feedtech” per l’Area dell’Expo 2015, ora destinato allo “human tecnopole”. Perché non progettarne altri finalizzati a produrre innovazione che alimenti le start up e l’open innovation dei nostri campioni del made in Italy?
La lista dei rischi, e parallelamente delle opportunità, è ben più lunga. È “l’innovazione bellezza” si potrebbe pensare. Un gioco che non si ferma mai. I punti d’appoggio proprio per questo sono fondamentali. Non gli “spunti” però. Ed è per questo che c’è ancora tanto da lavorare per limitare i rischi ed esercitare con successo le opzioni che un buon punto d’appoggio per definizione genera.