Il settore della comunicazione ha subito non poche rivoluzioni dall’introduzione di internet. Negli ultimi 40 anni siamo passati da una gestione pubblica e centralizzata delle comunicazioni ad una gestione privata e distribuita. Anche la sua estensione e accessibilità sono cambiate: dalle telefonate dirette fra due interlocutori, all’essere costantemente online su scala globale. Oggi possiamo interagire con una vastissima pluralità di persone in modo semplice, gratuito ed istantaneo.
La maggior parte degli utenti attivi ogni mese su Facebook (circa 1,2 miliardi di persone) usa il noto social network principalmente attraverso il proprio dispositivo portatile per comunicare con i propri amici e conoscenti, indipendentemente da dove essi si trovino. Lo scambio di messaggi online consente l’abbattimento dei costi di trasmissione e la fruibilità multi-piattaforma di servizi aggiuntivi, come l’utilizzatissimo lo scambio di immagini o di messaggi vocali: due elementi fondamentali che hanno spinto gli utenti dotati di uno smartphone ad abbandonare l’utilizzo degli SMS in favore delle più note applicazioni di messaggistica.
Con più di 450 milioni di utenti attivi mensilmente in tutti e 5 i continenti, WhatsApp si è affermata come l’applicazione di messaggistica più popolare insieme a Facebook Messenger, Line e Viber. Non stupisce quindi che Facebook abbia deciso di acquisirne il controllo. Non è tanto l’acquisizione in se a lasciare stupefatti, quanto la cifra astronomica di 19 miliardi di dollari. Due anni fa Facebook ha acquistato Instagram, il popolare servizio di condivisione dei propri scatti, per un miliardo di dollari. Per WhatsApp ha speso ben 19 volte tanto. D’altra parte, i multipli comunemente utilizzati per la valutazione economica dai mercati finanziari possono essere ritenuti ragionevoli: il valore per utente di WhatsApp è appena superiore ai 40$, mentre per Facebook per Twitter si è giunti a multipli ben superiori ai 100$.
Ma quanto valgono 19 miliardi di dollari? E’ circa quattro volte il valore del nuovo World Trade Center o 1,5 volte il budget annuale dell’organizzazione no-profit United Nations. Molte sono le nazioni che producono un PIL inferiore, tra cui: l’Albania ($12,38 miliardi), l’Armenia ($9,78 miliardi), l’Islanda ($13,47 miliardi) e la Mongolia ($10,12 miliardi). Il budget 2014 della NASA per l’esplorazione dello spazio è di 17,6 miliardi di dollari. Secondo un nuovo modello sostenibile sviluppato da Effect International (www.effect.org) con la cifra equivalente al valore di Whatsapp si potrebbero aprire circa un milione di nuove scuole in India, ciascuna potrebbe istruire 200 ragazzi il primo anno ed arrivare a circa 1.000 studenti in 5 anni. Una cifra sufficiente ad offrire la totalità della formazione primaria necessaria per educare le nuove generazioni del paese.
Allora perchè una singola applicazione di messaggistica online, per quanto una delle più diffusse, può arrivare a valere tanto? WhatsApp è un’azienda di circa 50 dipendenti, con un ricavo annuale potenziale di 450 milioni di dollari, in crescita del 100% annuo. Il valore chiave dell’applicazione è però la sua base utenti: un’asset imponente, ma volatile, in quanto molti di essi hanno già minacciato di cancellare il proprio account a valle dell’acquisizione, preoccupati dalla perdita di privacy nelle proprie conversazioni o dal fatto di ritrovarsi di nuovo uniti agli utenti di Facebook, magari dopo aver deliberatamente scelto di abbandonare il noto social network.
Facebook non ha quindi comprato principalmente server e data center, o altri asset tangibili, ha comprato il servizio offerto dall’applicazione che connette milioni persone in tutto il mondo. Non solo, l’acquisizione di per sè non genera alcun valore, sposta semplicemente il controllo dell’azienda da un gruppo di persone ad un altro. Sebbene sia chiaro che vi sono importarti sinergie tra le attività di Facebook e quelle di WhatsApp, il valore generato dall’acquisizione per l’utente finale è quasi irrilevante, almeno nel breve-medio termine.
Se durante la forte espansione industriale degli anni 70’ si investivano capitali sulla produzione di beni e servizi tangibili capaci di soddisfare i bisogni concreti e piuttosto basilari dei consumatori, con l’avanzare delle tecnologie e lo sviluppo della società, l’economia si è sviluppata sempre più intorno a quei servizi accessori che non rispondono alle esigenze essenziali dell’essere umano. Se da un lato questa evoluzione è auspicabile, viste le necessità sempre più sofisticate e complesse di ciascun individuo una volta soddisfatti i bisogni essenziali, dall’altro fa riflettere sull’investimento sempre più sbilanciato verso servizi di questo tipo. Dopo la bolla delle ormai famigerate dot-com del 2000 ed il periodo di recessione iniziato nel 2008, possiamo permetterci di sostenere ed aumentare gli investimenti su asset volatili e intangibili? O saranno magari proprio questi ultimi a dare inizio ad una nuova crescita sostenibile dei paesi maggiormente sviluppati? (scritto in collaborazione con Michele D’Aliessi).
Stefano Mainetti è Consigliere Delegato PoliHub – Startup District & Incubator – Fondazione Politecnico di Milano