A Milano ha aperto di recente uno dei più grandi spazi di co-working europei, 8.500 metri quadri. Un Talent Garden. Ed è cosa buona.
Non conosco direttamente il fondatore ma da quel che leggo ha le idee molto chiare. In sintesi, la sua intuizione potrebbe essere così parafrasata: “Nella corsa all’oro, i soldi li fa chi vende pale per scavare”. Con la disoccupazione giovanile a livelli di percentuale di colesterolo del foie-gras, è facile piazzare postazioni cablate a qualche 100 euro al mese a degli aspiranti Elon Musk.
È il centesimo incubatore, o giù di lì, della penisola. In UK, tanto per far paragoni, ci sono 59 tra incubatori e programmi di accelerazione. Ed è esercizio inutile paragonare il numero di membri del Three-Comma Club di sua Maestà entrati via startup con i nostri.
La passione per il mattone da noi si tramanda da generazione in generazione, neanche fosse la ricetta segreta della felicità economica.
Non ci riusciamo a emancipare dal capannone. Anche se l’incubatore è coloratissimo e tatuatissomo, si tratta sempre del sano, vecchio e sicuro immobile.
Insomma, la teoria dell’evoluzione ci ha suggerito che non è l’arto a fare la funzione; prima vengono le startup, che notoriamente nascono pure nei garage, poi il sistema si organizza e crea incubatori e spintatori di neo imprenditori.
Non che gli spazi di co-working non servano, anzi. L’attenzione va però tenuta sui contenuti, le startup, e non sui contenitori. Vanno celebrati non 8.500 metri quadri ma 8.500 imprese (quelle innovative, da Registro, sono per ora poco più di 4.200).
La sindrome pare quella che ha già colpito il crowdfunding: più piattaforme autorizzate che imprese finanziate. Tifiamo, per il bene delle startup, per un feroce processo di aggregazione di incubatori. Vinca il migliore, ma combattete.