L’aspirina non basta più al moribondo, così le “micro” riforme che il Governo ha appena presentato, non bastano al Paese. La politica dei piccoli passi non risponde all’emergenza che stiamo attraversando. Il vero problema non sono i numeri dell’economia, ormai negativi da mesi, ma la prospettiva e il posizionamento nel mercato globale. Non solo stiamo perdendo posizioni a livello economico, ci sta sfuggendo la capacità di influenzare i grandi processi culturali e sociali. Il modo di interpretare lo sviluppo economico e sociale che ci ha reso un paese prospero non funziona più alle condizioni attuali. Siamo sempre meno un punto di riferimento e la cosa non ci preoccupa. Dovrebbe, invece. Ci serve una nuova visione, un modo originale di interpretare il futuro, meglio se più visioni tra loro in competizione, nello spirito della società aperta.
Non possiamo rimanere a lungo schiacciati tra i paesi “emergenti” che producono di più e a meno, e oggi anche meglio, e i paesi che hanno sviluppato la capacità di innovare e creare fornendo una leadership globale. La leadership politica o classe dirigente dovrebbe guidarci verso il futuro, abbandonando il guado soffocante dell’incertezza verso l’innovazione. È questa l’unica via da percorrere se non vogliamo rinunciare al benessere raggiunto. Dobbiamo imparare ad innovare e nutrire innovatori, cosa che da diverso tempo abbiamo smesso di fare. L’innovazione sta per sua natura nelle nuove generazioni. Eppure ci siamo poco interessati di loro. Con presunzione abbiamo cercato di adattarli al nostro modo di vedere il mondo, obbligandoli ad un sistema scolastico povero e totalitario che umilia la creatività e l’imprenditorialità, caratteristica di ogni bambino.
Il boom economico è partito dalla disperazione della guerra e dalla necessità di intraprendere, ma soprattutto da una grande capacità tecnica con cui le scuole nutrivano i giovani di allora, che in parte erano i resti degli istituti sorti intorno alla grande industria tessile e manifatturiera. Il successo di allora si fonda proprio sull’imprenditorialità di individui visionari, la generale e collettiva voglia di fare ed emergere, e un sistema di formazione perfettamente integrato all’industria e all’idea di sviluppo.
Si deve ripensare la formazione, collegandola a quelle che sono le professioni future e parallelamente ripensarne i metodi. E’ anche il modo migliore per vincere la sfida della disoccupazione. Pensare di pompare danaro per facilitare le assunzioni di migliaia di giovani, liberalizzando e sburocratizzando il mercato del lavoro, porta certamente ossigeno ma non risolve la cronica difficoltà respiratoria. Coltivando nuove mansioni, cioè facendo innovazione, possiamo generare maggiore e migliore occupazione. I preziosi dati prodotti da Eurostat e Cedefop suggeriscono che sono le STEM le aree su cui investire per creare innovazione.
Lo dimostrano i paesi del Nord Europa e gli USA. Questi ultimi stanno riportando a casa – in-shoring – mansioni esternalizzate lo scorso decennio. Costa meno produrre a casa, sorpattutto perchè sono stati innovati i processi, spesso automatizzati e miglirorata la qualità dei prodotti a vantaggio dei consumatori. L’intera filiera è più sostenibile. I posti di lavoro generati non raggiungeranno i livelli antecedenti la fuga verso oriente, ma sono sempre posti e soprattutto innovazione, e quindi sviluppo e benessere. Ci vogliono competenze per questa rivoluzione, ma soprattutto ci vuole capacità creativa, spirito imprenditoriale e una grande voglia di scoprire il mondo e di risolverne la complessità. Certo non bastano solo le STEM ai nostri giovani. In un contesto in cui il digitale è ormai nel DNA sociale, la formazione non deve solo trasferire conoscenze, ma deve favorire la curiosità, l’immaginazione e l’intraprendenza.
In Finlandia la formazione sta “subendo” un radicale ripensamento, abbattendo le barriere disciplinari, stimolando creatività e imprenditorialità.
L’innovazione non può essere insegnata, ma si può (e si dovrebbe) stimolare una mentalità aperta all’immaginazione e alle nuove idee, e soprattutto un ambiente favorevole per chi vuole innovare e non viceversa. Questo approccio deve cominciare almeno dai 6 anni, esattamente quando comincia a manifestarsi il processo contrario. Fino alle scuole dell’infanzia i bambini vengono stimolati a fare, mentre dalle elementari si inizia a riempirgli la mente con una serie di conoscenze e un metodo che tende a limitare la creatività e la libertà d’azione, favorendo lo sviluppo di processi mnemonici e automatici. Molte delle metodologie che chi vuole innovare sta provando a sviluppare affondano le radici nel metodo Montessori che in Italia viene spesso ignorato quando non guardato con sufficienza.
Negli Stati Uniti il Presidente Obama ha di recente lanciato il programma “opportunity for all” per ridurre l’abbandono scolastico nelle aree più depresse e garantire a tutti le medesime opportunità di partenza. I paesi del Nord Europa lo fanno da tempo. E noi quando pensiamo di dare libertà ai nostri figli e centralità alla loro creatività? Non è ancora troppo tardi ma dobbiamo prima abbattere privilegi, corporazioni e uno stato leviatano che ha progressivamente mangiato la libertà. Ma ne vale la pena.
Pietro Paganini è Professore aggiunto presso il Dipartimento di Business Administration, John Cabot University; Curiosity Chairman Competere.EU