La prima domanda che tanti si sono posti all’annuncio della svalutazione del Renminbi è se essa rappresenti ragione sufficiente per rimandare l’aumento del tasso di sconto da parte della Fed atteso da alcuni per il 16-17 settembre prossimi. Si veda, ad esempio, questo articolo del Financial Times. Si ricorderà che questa decisione è attesa da molto tempo, e la sua importanza è forte perché sarebbe la prima volta che essa viene attuata dalla crisi del credito iniziata nel 2007 e, in ogni caso, in un ambiente di crescita Usa certamente presente ma non travolgente. Si ricorderà anche che alcuni attendono questa decisione per settembre, altri per dicembre, ed altri ancora cominciano a pensare che potrebbe essere attuata due volte, sia a settembre che a dicembre.
Chi si pone il quesito assume un modello teorico in cui l’aumento del tasso di sconto Usa per la prima volta in tanti anni da un lato segnalerà la volontà definitiva del FOMC di uscire dalla trappola della liquidità e, dall’altro, segnalerà ai mercati un differenziale maggiore tra rendimenti Usa e rendimenti nel resto del mondo, e in particolare in UEM, il che dovrebbe spingere verso un eccesso di domanda di dollari Usa e il conseguente apprezzamento del dollaro. Altri sostengono invece che questo aumento del tasso di sconto Usa è nelle carte da troppo tempo, che l’incertezza creata da questa situazione sta danneggiando i mercati finanziari, che gli Stati uniti non possono lasciare che eventi pur importanti come questo condizionino le proprie scelte di politica economica.
Esiste poi la percezione che la svalutazione cinese, rendendo più bassi i prezzi delle importazioni del resto del mondo dalla Cina, contribuirà a deflazionare il mondo. Il che implica che le previsioni di alcuni secondo cui si stava uscendo dalla deflazione si rivelano ora inadeguate, e il punto di svolta della ripresa della crescita dei prezzi viene spostato in avanti (alcuni dicono a fine 2016). Mentre le previsioni di altri, tra cui quelle di chi scrive, di uno stato già avanzato di deflazione di lungo periodo ne escono ulteriormente rafforzate. Sono infatti sempre più convinto che siamo entrati in una fase di quella ‘stagnazione secolare’ di cui Lawrence Summers cominciò a parlare nel novembre di due anni fa e della quale vedo personalmente segnali sempre più convincenti.
Per enfatizzare la posizione di coloro che temono una stagnazione secolare, proprio in questi giorni L. Summers ha prima marchiato come “grave errore” l’eventuale aumento del tasso di sconto da parte della FED, e poi ha rilanciato invitando la FED stessa ad una inversione radicale delle proprie politiche. In sostanza? Che la FED riprenda in tempi rapidi la politica del quantitative easing, altro che mettere i bastoni tra le ruote ad una crescita Usa non brillante e ad una congiuntura mondiale pessima. Interessante poi il fatto che Summers, un accademico, abbia presentato la sua posizione nelle stesse ore in cui Ray Dalio, fondatore e co-capo degli investimenti di Bridgewater Associates, un hedge fund da $200 mld., scriveva considerazioni assai simili nella lettera settimanale ai suoi investitori. Infine William Dudley, FED di New York e membro del FOMC, ha dichiarato che la sua valutazione è che dopo i ‘recenti avvenimenti’ le ragioni per un aumento del tasso a settembre siano meno pressanti di quanto non fossero solo poche settimane fa.
Conclusione? Secondo me per settembre non se ne parla. Vedremo. Dicembre, forse?