Pochi lo ricordano, ma Gillian Tett è l’autrice di L’oro dei fessi (Fool’s Gold, traduzione mia), uno dei primissimi libri sulla crisi del credito emersa nel 2007. L’aveva intitolato così forse per dire già nel titolo che non di mutui subprime si sarebbe dovuto parlare, ma di ‘ingegnerie finanziarie’. Osservazione arguta, forse dovuta al fatto che Tett non è un’economista, ma un’antropologa. Il che le consente, evidentemente, anche di spaziare con successo da un campo all’altro delle discipline sociali. E oggi invita a riflettere sul rapporto tra digitalizzazione e democrazia. Tema spinosissimo, da discutere con grande prudenza.
Si può cominciare a parlarne con lucidità riconoscendo dapprima che la diffusione del digitale consente ad alcuni individui, tanti o pochi non so, di esercitare maggior potere su parti importanti della propria vita: la app che ti porta sul telefono la comparazione tra le offerte dei supermercati della tua città è una gran cosa… peccato che quelle comparazioni interessino prevalentemente se non esclusivamente a chi un’app non sa che cosa sia.
È bello e utile sapere quanto disti dalla tua fermata l’autobus che stai aspettando, così che tu non debba aspettare al freddo troppo a lungo, salvo il fatto che quelli che non sanno che cosa sia un’app il freddo continuano a prenderselo. È bello e utile che tu possa acquisire dalla rete i risultati di esami medici sostenuti dalla tua vecchia madre, a condizione che si capisca che è il ‘tu’ che intermedi che fa la differenza, poichè alla vecchia madre la rete non è accessibile.
È bello e utile poter acquistare il tuo biglietto ferroviario da casa (ovviamente, diciamolo per favore, questo è anche il modo per scaricare su di me il costo della gestione della biglietteria); è bello e utile poter chiamare un taxi… e avanti così.
Quel che voglio dire è che se per caso qualcuno confondesse ‘democrazia’ con ‘uniformità di accesso’ o, peggio ancora, con ‘uniformità di opportunità di accesso’, si ravveda: sono cose diverse. Una Rolls Royce non è uno strumento di democrazia solo perché chiunque abbia i soldi per comprarsela può comprarsela indipendentemente da sesso, razza, credo politico, eccetera. Insomma, i miracoli sono un’altra cosa, la rete ha dei costi e dei benefici, e costi e benefici non sono distribuiti uniformemente. Ergo, nessuna garanzia che la rete avvicini, che ci renda omogenei dal punto di vista dell’accesso alle opportunità o, un poco più pomposamente, da quello dei diritti di cittadinanza. Tutt’altro, sospetto io.
Il problema posto da Tett sorge di fronte al quesito se la digitalizzazione sia o meno uno strumento di democrazia politica. Come al solito, sarà bene sgomberare anzitutto il campo da discorsi a vanvera. Per esempio, ricordo un tempo in cui mi si voleva dar da intendere che Twitter è uno strumento di democrazia politica perché attraverso di esso i manifestanti antigovernativi di Hong Kong e quelli di Ankara potevano essere convocati in maniera rapida ed efficiente (che i relativi governi fossero o meno degni di contestazione è cosa del tutto irrilevante in questo contesto).
Meno irrilevante è la considerazione secondo cui la diffusione dei dispositivi portatili, quella dei pc e simili, consente un grado di informazione sulle vicende politiche mai raggiunto prima e, dunque, l’espressione di un voto ‘informato e responsabile’. Ma questa secondo me è una proposizione indimostrabile. Se il problema è avere cittadini informati a dovere prima che esercitino il proprio diritto di voto, come s i fa a dire che i telespettatori degli anni ottanta erano ‘meno informati’ del cittadino digitale di oggi? Meno nutriti, voglio dire, di informazioni rilevanti al fine della espressione del voto, non del ciarpame quotidiano noto come ‘le notizie’?
Lo erano perché non potevano ascoltare 44 telegiornali al giorno, a casa, in auto, sull’autobus, al bar? Una cosa è l’offerta, un’altra è la domanda, e l’equilibrio che ne risulta una terza ancora. Il mezzo digitale consente di canalizzare velocemente e in maniera diffusa abbondante informazione. Ma che importanza ha il fatto che l’informazione venga diffusa ad altissima frequenza, quando si vota ogni tot anni? E poi, dal lato della domanda, non è forse vero che il consumatore di informazione è molto, molto selettivo, e vuol sentire prevalentemente (se non solo!) le cose che vuol sentirsi dire? In breve, non scegliamo noi chi seguire su Twitter? Che l’offerta sia smisurata rispetto alla mia domanda non fa di me un elettore migliore. O no?
Tett cita un interessante passaggio da un rapporto presentato dal gruppo di relazioni pubbliche Edelman al World Economic Forum:
“Il tasso di approvazione dell’operato dei politici sta cadendo, e i partiti politici in essere in Europa dovranno fare i conti con il declino nel numero dei loro membri e riconsiderare i modi in cui si rapportano all’elettorato”.
Essendo il pezzo citato parte di un rapporto preparato da una ditta di relazioni pubbliche, l’enfasi non poteva che essere sui rapporti e sulle comunicazioni. E se invece ci fosse un problema di rappresentatività sui contenuti? Voglio dire: e se la distanza tra élite politica ed elettorato/cittadinanza avesse a vedere con gli interessi che l’élite rappresenta, e non con la diffusione o meno del mezzo digitale, certamente uno dei ‘modi in cui [i partiti esistenti] si rapportano all’elettorato?