Capita spesso che una cosa arcinota a chi studia l’economia internazionale, i modi di produrre e di scambiare, il divenire delle relazioni internazionali, salga improvvisamente alla ribalta della stampa quotidiana. L’attenzione dura qualche ora o al massimo qualche giorno, e poi la notizia ‘scompare’. Ma stavolta la notizia è veramente importante, e sarà bene dunque riprenderla e rifletterci sopra un poco. Che cosa è questa storia che la Commissione europea vuole che Apple paghi le tasse al governo irlandese, governo di un paese membro dell’Unione, tasse che il governo irlandese non vuole riscuotere!?
♦Il contesto
Se non si vuole affrontare il quesito in modo ideologico, occorre partire da lontano, e in particolare da due caratteristiche dell’economia così come è venuta evolvendo negli ultimi quarant’anni circa, ovviamente con intensità e modalità diverse da paese a paese. Stati Uniti sempre all’avanguardia, in entrambi i casi.
1. La frammentazione internazionale della produzione
Ancora oggi la gran parte delle persone, e perfino molti economisti, pensano che il processo produttivo delle merci, quel processo che crea valore, salari e profitti, sia un fenomeno localizzato in un solo paese. Lo sappiamo perché sentiamo parlare di prodotti ‘made in’, di ‘chilometri zero’, e di ‘eccellenze nazionali’: tutti concetti che andavano forse bene ai tempi del nonno, ma che oggi non hanno alcuna rilevanza. Si, certo, un tot di rapanelli non viene importato né dall’estero né dai comuni circostanti il nostro ma prodotto ‘in zona’, chi lo nega. Ma il problema è più complesso, come si diceva una volta: è un problema di proporzioni. E di metodo di produzione. Oggi, e da decenni ormai, i processi produttivi di manufatti e servizi non sono più localizzati in un solo paese e in un solo impianto. Imprese del paese A importano semilavorati dal paese B, lavorano quei semilavorati (li ‘perfezionano’) e poi li destinano al consumo interno o estero, o forse li riesportano addirittura verso il paese C perché le imprese di quest’ultimo li lavorino ancora. E avanti così. Chi ne avesse voglia potrebbe leggere un articolo illuminante del 2011 di Pascal Lamy, dal 2005 al 2013 direttore dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, di cui riporto un estratto.
“As recently as 30 years ago, products were assembled in one country, using inputs from that same country. Measuring trade was thus easy. 2011 is very different. Manufacturing is driven by global supply chains, while most imports should be stamped “made globally”, not “made in China”, or similar. This is not an academic distinction. (…) It isn’t just phones. Automobiles, aircraft, electronics – even clothing – are increasingly made in many countries. No car or commercial jet could now be built with inputs from just one country.”
Ovviamente non è scritto da alcuna parte che le imprese che svolgono le diverse fasi del processo produttivo globale appartengano ad entità diverse: delle volte avviene così, delle altre un’impresa costituisce imprese proprie in diversi paesi, e allora il processo produttivo appare come condotto dalla sola impresa ‘madre’. E tanto per complicare il quadro, alla globalizzazione del processo produttivo e alla sua frammentazione in unità ‘semplici’ condotte in paesi diversi, si affianca il processo di distribuzione globale del prodotto finito.
2. L’ideologia del libero mercato: l’era della deresponsabilizzazione delle imprese
Con la globalizzazione della produzione, della distribuzione e delle vendite, aumentano in maniera mai vista prima le spinte alla concorrenza. Spinte che possiamo, per comodità, classificare in ‘indiscutibilmente legali’ quali che ne siano gli effetti e, dall’altro lato, ‘discutibilmente legali’. Appartengono alla prima categoria tutte quelle attività che consentono la riduzione dei costi unitari di produzione, la riduzione dei costi di distribuzione, la ricerca di ‘luoghi’ in cui si ritiene che la cultura dell’innovazione sia più forte di quella che caratterizza il paese in cui si è prodotto fino ad ora. Questa categoria è fonte di discussione e di ricerca scientifica dal 1980 circa con il lavoro influente di Sanyal e Jones (1983) che mostrano come nel commercio internazionale si registravano quote crescenti di prodotti semilavorati. Seguendo il lavoro pioneristico di Jones, alcuni economisti iniziarono a concentrare l’analisi sugli effetti ‘frammentazione internazionale della produzione’. Si può condurre una analisi costi e benefici per varie motivazioni; ad esempio, per studiare chi perde e chi guadagna da questi processi di globalizzazione, si può condannarli sulla base di un qualche criterio, ad esempio, l’occupazione nell’impresa che si globalizza, o enfatizzarne gli effetti positivi sull’impresa che riceve ordini in conto lavorazione dall’estero. Ma certo la discussione sarebbe centrata su produzione e distribuzione del valore aggiunto tra gruppi sociali. L’impresa è ‘deresponsabilizzata’ nel senso che espelle dal proprio sistema di valori gli interessi degli stakeholders quali i dipendenti, i fornitori ‘locali’, le comunità circostanti al proprio insediamento tradizionale. Avvocati e commercialisti/fiscalisti, hanno molto lavoro a star dietro a questi processi, ma raramente i problemi che debbono affrontare hanno caratteri di ‘discutibile legalità’. In altre parole: il problema vero, e le parcelle ricche, arrivano quando si tratta di decidere a chi pagare le tasse, quanto, a che condizioni in un mondo in cui la produzione è frammentata internazionalmente e la distribuzione del prodotto finale è globale.
3. A chi, a quale governo sovrano, vanno pagate le tasse?
Manna dal cielo per avvocati, fiscalisti internazionali, ragionieri. Prendiamo il caso Apple. Non sono in grado di discuterlo, ovviamente, poiché non si tratta delle mie tematiche. Ma ho fornito il background utile a capire la dimensione del fenomeno. Posso però suggerire delle letture.
Per prima cosa, è necessario comprendere qual è la contestazione della Commissione Europea verso Apple che secondo Margrethe Vestager, commissaria europea della concorrenza, consiste nell’aver fornito ad Apple un vantaggio sui concorrenti attraverso un beneficio fiscale nei suoi confronti. Partendo da contestazione che costringerà Apple a pagare 13 miliardi di euro, varie sono state le opinioni e gli articoli scritti. Di seguito riporto quelli che ho trovato più interessanti.
Alessandro Meloncelli prova “evidenziare quale sia l’impatto del provvedimento comunitario, in termini di autonomia degli Stati e dei vincoli comunitari.” (Il caso Apple: le scelte fiscali dello Stato membro e i vincoli comunitari, 14 settembre 2016).
A livello macroeconomico, gli effetti potrebbero mettere in discussione non solo l’autonomia degli stati con i vincoli dell’Unione Europea, ma anche l’‘affidabilità’ degli accordi tra imprese e governo Irlandese e la relazione tra Unione Europea e Stati Uniti (Three problems with the EU’s €13 billion ruling on Apple’s Irish taxes, 31 agosto 2016).
Su quest’ultimo punto, alcuni articoli provano a sfatare almeno due miti: Il primo riguardo al ‘potere’ esercitato dalla Commissione Europea in merito al diritto di imporre questa sanzione; il secondo riguardo alla ‘proprietà’ del gettito fiscale generato da Apple (The myths behind Apple’s manufactured tax crisis, 6 settembre 2016).
Questo caso, inoltre, ha (ri)portato all’attenzione il tema sulla distribuzione dei benefici e dei costi della globalizzazione (Taxing US Companies In Europe: Take A Big Bite Of Apple, 30 agosto 2016).
Infine, si potrebbe ipotizzare che l’antagonismo della Commissione Europea verso un sistema di tassazione così vantaggioso per le imprese potrebbe favorire paesi che non devono (o dovranno) rispettare le regole dell’Unione Europea. Alle domande se è possibile e desiderabile per il Regno Unito prendere il ruolo dell’Irlanda risponde questo articolo: Why Apple’s low-tax deal is no blueprint for Brexit Britain, 4 settembre 2016.
A breve torneremo sulla questione.