In un’intervista a EconomyUp Mariana Mazzucato ha detto che il premier Matteo Renzi dovrebbe chiedere alla Ue di considerare gli investimenti in innovazione fuori dal patto europeo di stabilità, così come i costi per eventi straordinari quali un terremoto o l’emergenza migranti. La proposta dell’economista italiana dell’Università del Sussex, nota per le sue idee controcorrente sullo Stato Innovatore, probabilmente troverà debole ascolto, più che nel governo italiano tra i contabili di Bruxelles.
La provocazione però suggerisce una visione dell’innovazione, della sua necessità e delle sue dinamiche su cui vale la pena soffermarsi anche a beneficio di chi, nella classe dirigente politica ed economica, è ancora convinto che la questione sia di competenza di accademici, tecnologi e startupper e, quindi, solo un pezzo neanche tanto centrale della competitività del sistema economico del Paese.
La premessa logica è un’ovvietà forse non così ovvia: innovare non è un’opzione, è un’attività necessaria per crescere (e in molti casi sopravvivere) da affrontare quanto prima possibile. Non c’è molto tempo per fare analisi, seguire i tortuosi processi decisionali delle grandi aziende, mettere d’accordo divisioni, direzioni e silos vari. Il rischio è di arrivare a sintesi quando il quadro di riferimento è cambiato o qualcun altro, magari più piccolo e per questo più veloce, ha già conquistato posizioni sul mercato. Nei prossimi mesi, sia nella Pubblica Amministrazione sia nelle aziende private, conteranno sempre meno le dichiarazioni d’intenti e sempre di più i fatti.
Cloud, big data, IoT, intelligenza artificiale, industria4.0, smart car. Tutte le tecnologie digitali e le loro applicazioni, con i termini che cercano di definirle per aiutarci a comprenderle, hanno un duplice effetto: mettono in discussione i modelli organizzativi tradizionali e ridefiniscono i perimetri competitivi dei mercati. Insomma, disruption sul fronte esterno e su quello esterno. Non è più possibile lavorare come si è sempre fatto (e la questione non è certo adottare o meno un nuovo software) e soprattutto non sono più definiti e stabili i concorrenti. I velociraptor possono arrivare in qualsiasi momento da qualsiasi direzione per aggredire i dinosauri.
Le startup sono importanti ma non possono essere sempre la soluzione. “Chi se ne frega delle startup”, dice bruscamente la Mazzucato nella stessa intervista a EconomyUp, correggendo poi il tono: “Non ho niente contro le startup, sono semmai contro l’ossessione delle startup. Il fulcro è l’ecosistema. In Italia abbiamo, nella stragrande maggioranza dei casi, imprese di piccole dimensioni e non è una cosa bella. Bisognerebbe trovare il modo di aiutare veramente le poche startup che hanno potenziale”. Ma soprattutto è necessario che anche le aziende consolidate si sentano parte dell’ecosistema dell’innovazione, non solo per ragioni di marketing e di responsabilità sociale, ma per interesse, per ragioni di business.
Un solo esempio. Uno studio per Microsoft dell’Harvard Business School sulla data maturity per la prima volta ha quantificato il vantaggio che hanno le aziende con un livello di competenza e capacità nella gestione dei dati: fino all’8% in più di fatturato. È l’effetto di una serie di impatti positivi sul marketing, la finanza, le operations, l’HR. Insomma chi ha capito e sta davvero usando i Big Data fa meglio il suo business. Anche senza le startup, che restano uno strumento importante di open innovation ma possono diventare inutili se l’azienda non ha ben chiaro in mente cosa fare con le tecnologie digitali, se non è disposta a cambiare il suo modo di fare e a vedere i mercati con occhiali diversi. Tutto il resto è marketing.