L’ANALISI

Il caso Comau: tre cose da sapere per capire perché il futuro dei robot di Stellantis non sarà italiano



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Stellantis, come nei programmi, ha venduto Comau al fondo USA One Equity Partners. Non si tratta di un caso isolato, va considerata la posizione dell’azienda nel mercato della robotica e la necessità di finanza. Il problema è la dimensione dei player italiani…

Pubblicato il 29 lug 2024

Ferdinando Pennarola

Professore di Organizzazione e Sistemi Informativi Università Bocconi



Comau
Una scultura sulla produzione automatizzata della 500

Cattura l’attenzione della stampa, dei sindacati e dell’opinione pubblica l’annuncio del 25 luglio 2024 di Stellantis, circa la cessione della maggioranza delle azioni di Comau. L’occasione è stata la conferenza sui risultati del primo semestre 2024 del gruppo, in cui si è comunicato, ad azionisti e investitori, un nuovo perimetro industriale che si verrà a realizzare entro fine anno.

Il caso Comau: Stellantis vende a un fondo americano

Stellantis, che al momento controlla interamente Comau, cederà la maggioranza delle azioni al fondo USA One Equity Partners e conserverà una quota di minoranza nella società. I dettagli finanziari e i valori della transazione non sono stati resi noti. Quanto annunciato pochi giorni fa è il secondo passaggio di una informativa pubblica che risale al momento della costituzione di Stellantis, nel gennaio 2021, quanto gli azionisti di FCA e di Peugeot chiarirono che Comau sarebbe stata venduta.

Comau occupa circa 750 dipendenti in Italia, quasi tutti a Grugliasco, e quasi 3000 nel resto del mondo: il comune dell’interland torinese, ironia della sorte, è anche la sede dallo stabilimento Maserati, acquisito da Sergio Marchionne nel 2009, che dista meno di tre chilometri da Comau. Stellantis ha messo in vendita, a fine 2023, il sito Maserati dopo il trasloco delle attività produttive a Mirafiori. Il caso Comau è dunque un ennesimo episodio della “desertificazione industriale” che investe il comparto automotive in Italia?

Per comprendere i termini della questione è importante sottolineare tre aspetti che concorrono a spiegare il caso Comau, prima di trarre alcune considerazioni finali.

1. Comau non è un caso isolato

In primo luogo, non si tratta di un episodio isolato o particolarmente innovativo. Non è la prima volta che nel comparto automotive si realizzano spin-off di perle industriali trasferendone la proprietà a colossi del mercato.

Il 70% del valore aggiunto di una “passenger car” viene da componentistica realizzata da fornitori di primo e secondo livello. Gli OEM sono innanzitutto progettisti e assemblatori, e in questi ruoli dipendono in modo determinante dai partner industriali che consegnano loro ruote, gomme, acciai, elettronica di bordo, sedili, vernici, sistemi frenanti, fari, filtri, turbine e molto altro.

Il principio della specializzazione

Un principio portante di tutte le economie capitalistiche è quello della specializzazione: gli operatori economici si perfezionano in un ramo / comparto e, in quel contesto, puntano all’eccellenza, per realizzare economie di scala importanti e guadagnare una posizione di rilievo nel novero dei fornitori.

Questo modello di sviluppo produce vantaggi a tutti: abbassa i costi, rende più competitivo il prodotto, introduce standard che aumentano l’affidabilità e la qualità del prodotto finito. Sul principio di specializzazione non di discute: prendendo a prestito una citazione di Kofi Annan, ex Segretario Generale delle Nazioni Unite, che disse che negare la globalizzazione sarebbe come negare la legge di gravità, analogamente la specializzazione è inconfutabile.

Il precedente della vendita del brevetto del Common Rail

Un caso eclatante, appartenente ad una stagione precedente alla elettrificazione, fu la vendita del brevetto del “Common Rail” del gruppo Fiat al gigante della componentistica auto Robert Bosch, operazione che si concluse nel 1994 e che segnò una discontinuità nello sviluppo dei motori diesel.

L’Italia e la Fiat erano protagonisti: il “Common Rail” era il brillante risultato della ricerca e sviluppo del nostro Paese, sostenuto anche da accordi di programma con finanziamenti pubblici che ne prevedevano lo sviluppo industriale, e occupazionale, in Italia.

Un prodotto che ha radicalmente trasformato il destino del motore diesel, dotandoli di maggiori prestazioni, minori consumi, ridotta rumorosità ed emissioni inquinanti accettabili: qualsiasi altra soluzione, all’epoca in fase di applicazione, non poteva competere con il “Common Rail”. La prova fu che, dopo anni di investimenti, nel 2007-2008 il gruppo Volkswagen, sostenitore antagonista con i suoi sistemi a iniezione diretta e pompa, decise di soccombere e adottare il “Common Rail” della Bosch.

Ebbene, per la Fiat dell’epoca sarebbe stato un suicidio commerciale lanciare e sostenere autonomamente nel mercato una soluzione nella componentistica dei motori diesel, dove Robert Bosch godeva una quota mondiale di mercato inaffondabile. Una battaglia persa in partenza, aggravata da incertezze e costi sottostimati dello sviluppo industriale del “Common Rail”: nella fabbrica di Modugno (Bari), che segnò il re-ingresso in Italia di Bosch con un sito produttivo, le difettosità dei primi “Common Rail” erano elevatissime e ci vollero anni di perfezionamento per giungere alla soluzione performante che oggi tutti conosciamo. Di nuovo, la legge della specializzazione dimostra nuovamente la sua efficacia.

2. La posizione di Comau nel mercato della robotica industriale

Il secondo aspetto importante è la posizione relativa di Comau tra i concorrenti per l’automazione e la robotica industriale, sia per applicazioni nell’automotive che in altri settori.

Si tratta di un settore complicato, frammentato in mille ambiti differenziati, dove lo sviluppo software, e le competenze relative, hanno assunto un ruolo strategico. Chi riesce ad imporre lo standard vince la partita, e negli standard le dimensioni contano moltissimo, perché abilitano le famose economie di scala di cui si è detto prima.

Fanuc è quasi sei volte più grande di Comau, Kuka ha un fatturato pari a tre volte le dimensioni di Comau, Yaskawa quattro volte, e anche la piccola svizzera Stäubli (stesse dimensioni di Comau), fondata nel 1892, ha il suo spazio competitivo di disturbo in numerose applicazioni di automazione industriale.

La concorrenza è dappertutto: per non parlare di ABB che copre moltissimi spazi di mercato ed è un colosso di 30 miliardi di euro contro gli 1,1 di Comau, o di Denso oppure di Mitsubishi Electric. E nessuno di questi grandi player ha un centro decisionale corporate in Italia: Comau gioca in un campionato globale, in cui le potenzialità di crescita non sono limitate alle sole commesse dell’automotive, ma verranno dalle infinite praterie dell’automazione industriale che interessano tutti gli altri settori. Era già noto all’epoca dell’annuncio del gennaio 2021, alla costituzione di Stellantis, che il destino di Comau sarebbe stato non italiano, nella misura in cui qualsiasi alleanza possibile avrebbe combinato la governance con uno dei grandi operatori internazionali.

3. L’obiettivo è la crescita di valore di Comau

Il terzo aspetto riguarda la particolarità della vicenda di Comau che la vede abbracciare un fondo USA di private equity e non un partner industriale. Se un fondo compra un’azienda vuol dire che vede la possibilità di rivenderla ad un valore maggiore in un arco temporale ragionevole.

L’azionista Stellantis affida a Comau una missione chiara: concentrarsi nel settore per aumentare il valore, prima ancora di ragionare su quali sinergie sfruttare e con chi, quali rami applicativi tagliare quali sviluppare, quali investimenti fare e in quali aree geografiche del mondo. Si tratta anche di un messaggio che sintetizza una debolezza attuale di Comau: per essere un partner industriale appetibile, per uno qualunque dei giganti citati prima, bisogna essere innanzitutto più attrattivi.

Potremmo discutere all’infinito quante volte un approccio limitato alla crescita di valore sia risultato miope per lo sviluppo sostenibile, di lungo periodo, ed in questo senso sono comprensibili le preoccupazioni di sindacati e opinione pubblica sul futuro di Comau.

La Daimler uscì dall’alleanza con Chrysler nel 2007, vendendo a Cerberus Capital Management: pessima scelta, secondo Sergio Marchionne, che nel 2012, a ristrutturazione di Chrysler terminata con successo, pubblicamente marchiò il fondo di incompetenza industriale.

Attenzione però alle semplificazioni estreme: gli investimenti che entrano nell’industria con una logica finanziaria hanno una quota determinante in tutti i sistemi economici. La visione romantica di un azionista famigliare che prende tutti i suoi risparmi dalla cassaforte, li nega alle generazioni future e li investe tutti nello sviluppo industriale della sua impresa è un cliché che non sta più in piedi.

Certe operazioni sono possibili solo quando ci sono i capitali in misura congrua, e questi oggi sono mobilitati dalla finanza. Certamente sussiste il rischio che One Equity Partners prenda decisioni sbagliate, ma si tratta di un rischio comparabile ad altri, e correttamente mitigato da Stellantis con due clausole di salvaguardia: il mantenimento di una quota di minoranza importante in Comau e l’accordo sulla invarianza dei ruoli apicali di Presidente e CEO, in continuità con la gestione attuale.

Golden power e multa per Stellantis? è troppo tardi

È giusto far valere un argomento nazionale con l’esercizio di un “golden power” o con una multa importante a Stellantis per aver ceduto Comau senza adeguata informativa? Tralasciando le questioni legali, il problema arriva sul tavolo delle Autorità troppo tardi e qualsiasi iniziativa di questo tipo sarebbe un ripiego costoso per tutti di cui bisogna con attenzione valutare le conseguenze strategiche ed economiche.

Il problema sta da un’altra parte: per giocare al campionato globale dell’automazione e della robotica industriale, così come ad altre competizioni internazionali in altri settori, è indispensabile fare crescere le dimensioni dei nostri giocatori, per farli diventare predatori e non prede. È un lavoro importante che non possiamo giocare da soli, ma in sincronia con i partner europei e la Commissione di Bruxelles in corso di nomina nelle prossime settimane.

Questi compiti a casa li hanno già fatti, da tempo, in Cina e in USA, utilizzando approcci completamente diversi, ma i cui risultati sono evidenti agli occhi di tutti. Con una politica economica di sviluppo industriale debole, testimoniata da rattoppi di breve periodo, fatti con discontinuità rispetto al passato, con incentivi fiscali finanziati con poche risorse che non danno un orizzonte di lungo periodo a chi deve investire in Italia, ci dobbiamo aspettare sempre più casi come quello di Comau, in cui la legge della specializzazione porterà altri campioni nazionali nelle braccia di operatori esteri.

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