Open Innovation in Practice

L’innovazione si impara “studiando” le startup, anche a scuola

La cultura della trasformazione digitale si diffonde a partire dalle aule scolastiche. Alessandra Luksch racconta l’esperienza fatta a ForumPA davanti alla classe di un istituto superiore. A cui ha spiegato come il percorso degli innovatori sia costellato di fallimenti. Ma anche di successi, come quelli di Qurami e Satispay

Pubblicato il 09 Giu 2017

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Si è appena conclusa l’edizione 2017 della manifestazione ForumPA, alla quale ho partecipato per un intervento sull’Open Innovation.

Il tema, si sa, è ormai un must per imprenditori, manager e consulenti. Le ragioni sono molteplici. Da un lato il paradigma dell’Open Innovation propone un modello di gestione dell’innovazione potenzialmente ricco di benefici importanti, dall’aumento delle fonti di reddito alla riduzione dei costi di innovazione; dall’altro lato, consente di portare nelle organizzazioni una nuova mentalità, più aperta e agile, che rende l’errore parte integrante del processo di innovazione.

Ero quindi sufficientemente fiduciosa rispetto alla platea che avrei avuto di fronte e sul fatto che il mio discorso sarebbe filato liscio con un linguaggio tra il manageriale e l’accademico.

All’avvio dell’incontro, con mio grande piacere, ho constatato che le prime file erano occupate da una classe di scuola superiore, la 3AS dell’IIS Giosué Carducci di Roma, recatasi lì con le loro professoresse Festuccia e Fulfaro. La classe ha infatti ricevuto un riconoscimento all’interno della manifestazione per il progetto “La cultura in digitale” svolto durante le ore di alternanza scuola-lavoro, simulando un’impresa da loro creata, una giovane startup quindi.

La circostanza è stata un meraviglioso imprevisto e una formidabile carica in più per il mio intervento.

Evidentemente il registro linguistico ha preso una piega diversa, non più termini come business model o ciclo di vita, ma tanti esempi vicini alle nuove generazione e parole quotidiane: “ogni quanto esce un nuovo smartphone? Ogni quanto cambiate la promozione telefonica?…ecco, questa è la riduzione del ciclo di vita dei prodotti…”.

Poter discutere di Open Innovation con giovani studenti di 16-17 anni è un modo per diffondere una nuova cultura dell’innovazione tra le nuove generazioni che già tentano di fare le prime startup e vedono in questo un’opportunità professionale sempre più concreta. È un modo per far capire ai giovani, soprattutto a quelli italiani che scrutano poche prospettive nel loro futuro, come i loro sforzi non siano solo tentativi maldestri di giovani inesperti che non interessano a nessuno, che le loro convinzioni non si devono abbattere di fronti ai primi errori, di come i grandi innovatori abbiano una carriera costellata di fallimenti (dai Google Glasses ad Amazon Fire). È necessario far comprendere come anche le imprese e la Pubblica Amministrazione, seppur faticosamente, stiano aprendosi alle startup, come gli investimenti in startup stiano crescendo anche in Italia (+24% nel 2016), come il rischio non sia solo pericolo. Come il fare sbagliando sia comunque meglio del non fare.

Tanti sono i casi di startup italiane di successo. Qurami, l’app che virtualizza le code, è stata creata da un giovane stageur in coda ad uno sportello, Roberto Macina, e i primi clienti sono state proprio le segreterie delle università di Roma e poi tanti Comuni. Satispay, l’app dei pagamenti, nata in una soffitta a Cuneo, è partita proprio dall’amministrazione comunale che ha saputo capire le declinazioni di Satispay anche per i servizi pubblici. Alberto Dalmasso, uno dei fondatori, invita i giovani “a sostenere la propria idea senza aver paura di sbagliare, perché soltanto imparando dai propri errori si può migliorare e trovare la strada giusta da percorrere. Inoltre, non bisogna accettare da nessuno l’indicazione che ciò che si ha in mente non si possa fare, solo perché non è mai stato fatto prima. Bisogna dare tutti se stessi, al 100%, lavorando tanto”.

Apprezzo quindi profondamente l’intuizione avuta da queste lungimiranti professoresse che hanno scelto di portare la propria classe ad un evento rivolto all’innovazione in un contesto più vicino alle imprese che alla scuola, per formare i propri studenti sui temi dell’imprenditorialità, leva imprescindibile di crescita per il nostro Paese. L’Open Innovation si impara anche a scuola.

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