Il design thinking rappresenta un grande opportunità per le imprese. Come ho scritto in un precedente articolo, serve però andare oltre la logica dell’innovazione prêt-à-porter, perché ogni azienda è un caso a sé. I programmi di trasformazione digitale hanno bisogno di consistenza e respiro perché richiedono la disponibilità dell’azienda ad affrontare un cambiamento organizzativo e culturale che può essere molto profondo.
In questo contesto, occorre chiedersi quali sono i capisaldi per introdurre il design thinking in un’azienda. Io ne ho individuati tre: un luogo simbolico, un team di facilitatori e tante spintarelle.
Innanzitutto serve un luogo simbolico, un posto che sia radicalmente diverso da tutto il resto dell’azienda, dove non ci siano tavoli per riunioni, monitor per video conferenze, impianti viva voce. Gli ambienti ideati per le attività di design thinking sono laboratori, grandi contenitori dove tutto ha più di una funzione e si può spostare e configurare facilmente. Su questo tema, la d.school di Stanford ha prodotto un libro (Make Space) che descrive il lavoro di progettazione degli spazi e degli arredi: dai tavolini che si possono regolare in altezza, alle white-board realizzate con prodotti acquistati nei magazzini per materiali edili.
Lo stesso spazio può ospitare un centinaio di persone che ascoltano una conferenza, lavorano in piccoli gruppi, costruiscono prototipi e via di seguito.
♦La d.school di Stanford
Normalmente nelle grandi organizzazioni non esistono aree così duttili, per cui occorre crearne una ex-novo e deve essere bella. A prima vista potrà sembrare un ragionamento naïf, ma l’architettura degli spazi ha un impatto importante sulle attività che vi devono essere ospitate. Non è un caso che, negli ultimi quarant’anni, man mano che evolvevano le teorie sull’organizzazione aziendale, ci sia stata una costante revisione del layout degli uffici.
Il secondo punto riguarda il team. Il design thinking è basato su processi semplici da spiegare: ci vogliono pochi minuti per illustrare come si fa una persona, una empathy map o come si racconta un customer journey, quali sono le tecniche per generare idee, classificarle e scegliere quelle più interessanti da testare sul campo. Peccato che non basti leggere un paio di libri e iniziare ad attaccare post-it colorati su una parete. Se fosse così banale, tutte le aziende farebbero prodotti strepitosi. La manegevolezza degli strumenti inganna: quello che conta, infatti, è la qualità di chi li usa e quanta esperienza ha accumulato.
La squadra che si occupa di introdurre e diffondere il design thinking all’interno di un’azienda dovrebbe essere fatta di dipendenti e consulenti. I primi dovrebbero svolgere il ruolo di facilitatori, mentre i secondi dovrebbero essere coinvolti di volta in volta per le vere e proprie attività di design.
C’è una sostanziale differenza tra il facilitatore e il designer: il primo ha il compito di gestire l’agenda delle attività, di dettare il ritmo, aiutare le persone con gli strumenti e via di seguito; in altri termini è al servizio del team che progetta. Il designer, invece, è un professionista che partecipa in prima persona al lavoro di progettazione, ha un know-how specialistico e – preferibilmente – ha esperienza nell’industria di riferimento. Non tutti possono essere designer: occorre essere versatili, curiosi e umili. I migliori designer che conosco hanno la capacità di connettere concetti ed esperienze, sanno guardare oltre quello che vedono tutti gli altri; studiano tantissimo, si aggiornano, osservano le persone e imparano qualcosa tutti i giorni; sanno che il proprio lavoro si basa su ipotesi da verificare e che l’ultima parola spetta all’utente, rischiano continuamente di sbagliare e sono disponibili a mettersi in discussione.
I designer dovrebbero essere esterni per due motivi. Il primo è che le grandi aziende hanno difficoltà ad attrarre persone creative e con una conoscenza profonda del mestiere: chi ha queste caratteristiche può guadagnare molto di più come freelance o aggregandosi a una startup dove potrà esprimere il suo talento senza dover subire i non-si-può-fare di colleghi e superiori alle prese con la politica aziendale. Il secondo motivo risiede nel fatto che i designer andrebbero scelti in funzione del contenuto del progetto e della sua complessità: per molte attività un libero professionista può offrire un rapporto qualità/prezzo molto interessante. Ma se la complessità del progetto cresce ed è necessario coordinare molte attività, diventa gioco forza affidarsi a una società.
Il terzo punto sarà oggetto del prossimo articolo.