“Mr Trump è inusuale nei suoi toni aggressivamente protezionistici, ma da molti punti di vista è in linea con i tempi. Le imprese multinazionali, punta d’ariete del processo di globalizzazione, sono in arretramento da molto prima delle “rivolte populiste” del 2016. Sono peggiorate – fanno eccezione soprattutto le imprese legate al mondo Internet [ai vertici mondiali per capitalizzazione di Borsa] – le loro performance finanziarie, spesso inferiori a quelle delle imprese locali: perché sembrano aver esaurito la capacità differenziale di tagliare i costi, sfruttando l’effetto di scala derivante dalla presenza su più mercati, e di ridurre al minimo le tasse, spostando gli utili nei Paesi fiscalmente più “clementi”. Le bordate di Mr Trump sono rivolte contro imprese che sono sorprendentemente vulnerabili e che, in molti casi, hanno già invertito la loro rotta”.
È la mia traduzione libera di un articolo della storia di copertina dell’Economist, riportando una serie di statistiche (che meriterebbero una
verifica approfondita) a conferma della tesi ed elencandone le principali cause: tra cui la crescita dei costi di coordinamento e l’atteggiamento sempre più ostile nei riguardi dell’elusione fiscale. Un articolo di fondo che dà conseguentemente per scontato il ridimensionamento del fenomeno della globalizzazione. “Il risultato – è ancora una mia traduzione libera – sarà una forma di capitalismo più frammentato e “parrocchiale”, molto probabilmente meno efficiente ma forse con un più ampio supporto da parte della gente. E l’infatuazione per le imprese multinazionali globali verrà vista in futuro come un “accidente storico” nella storia del business, e non come il punto finale di arrivo”.
“On Globalization, China and Trump Are Closer Than They Appear”, sosteneva a sua volta due giorni fa The Wall Street Journal, commentando la fede nella globalizzazione proclamata a Davos dal leader cinese Xi Jinping. “Una fede, la cinese, molto diversa da quella occidentale tradizionale che lega la globalizzazione al liberismo. La Cina subordina le forze di mercato e le relazioni commerciali ai sovrastanti interessi nazionali. E Trump sta dimostrando un approccio altrettanto nazionalistico alla visione del mondo”. E prosegue ricordando che il libero commercio è “politicamente più facile da vendere” quando si opera in condizioni di forza, che gli inglesi ne adottarono la filosofia solo nel XIX secolo e che gli statunitensi hanno mantenuto barriere protettive alte sino a dopo la II guerra mondiale, che la Cina sta cercando ora di recuperare la sua antica egemonia economica. Esprime dubbi sulla possibilità delle politiche protezionistiche di Trump di raggiungere i loro obiettivi, a fronte delle contromisure ritorsive che potrebbero danneggiare alcuni dei comparti forti dell’economia statunitense. Ma soprattutto chiude con la dichiarazione pessimistica che “il vero perdente è il resto del mondo” e che il messaggio proveniente da Davos non è che “la Cina è il nuovo guardiano di un’economia globale aperta”, ma piuttosto che “non ci sono più guardiani” a difesa dell’apertura dell’economia mondiale.