Pa, «la riforma ha troppe norme e non è rivoluzionaria, ma migliora l’accesso ai dati»

L’Annual Report FPA ripercorre i limiti di 26 anni di regole sulla Pubblica amministrazione. La nuova regolamentazione, secondo un campione di 700 persone interpellate, ha dei limiti ma è perfettibile: potrebbe avere un impatto sulla crescita della produttività e del PIL dello 0,6% tra 5 anni

Pubblicato il 19 Dic 2016

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Un anno dopo l’approvazione della riforma della Pubblica amministrazione Renzi-Madia, e pochi giorni dopo la riconferma della ministra nello stesso dicastero, è stata presentata il 19 dicembre a Villa Malta a Roma la ricerca inedita “25 anni di Riforme della Pa: troppe norme, pochi traguardi”, in occasione della pubblicazione dell’Annual Report FPA: un’indagine che allarga lo sguardo sugli ultimi 26 anni, 18 governi, 15 diversi ministri della Pubblica Amministrazione, 8 legislature e oltre 15 interventi legislativi pensati per essere “epocali” e risolutivi alla ricerca delle ragioni profonde che hanno portato le precedenti riforme a fallire, per non ripetere gli errori del passato e tracciare una rotta nuova.

Una rotta ancora possibile, a patto che si agisca in fretta, per quelle parti della riforma Madia già approvate e che già stanno mostrando i loro timidi frutti. Una riforma il cui primo bilancio – almeno sul piano delle deleghe arrivate al traguardo – è il seguente: 16 i decreti attuativi approvati in via definitiva; di questi, 2 (dirigenza e servizi pubblici) sono stati ritirati e poi decaduti e altri 3 (partecipate, direttori sanitari e “furbetti del cartellino”) sono in attesa di correttivi; 5 sono prorogati a febbraio, insieme al provvedimento forse principale: il testo unico del pubblico impiego.

La ricerca guarda ai processi di riforma della PA legati all’uscente governo Renzi da quattro diverse angolazioni:

un quarto di secolo alla ricerca del cambiamento mancato: uno sguardo alle riforme degli ultimi 25 anni per rintracciarne le criticità, e uno al futuro per immaginare gli scenari se la riforma Madia entrasse a pieno regime, guardando alle concrete ricadute in termini di PIL e occupazione;

un anno di riforma Madia, con la verifica dei progressi formali e fattuali della legge delega attraverso un racconto breve di cosa è successo, cosa deve ancora succedere e cosa non succederà;

l’indagine Panel PA, condotta su quasi 700 uomini e donne prevalentemente impiegati nel settore pubblico, per capire in che modo vivano le ricadute della riforma;

a che punto siamo con… guardiamo i numeri, una selezione di dati relativi alle azioni introdotte con alcuni dei decreti attuativi già entrati in vigore

Ciò che emerge in prima analisi dalla ricerca di FPA è che non c’è dubbio che l’impostazione della riforma Madia non sia stata rivoluzionaria. Sconta anzitutto l’atavico vizio, che la accomuna alle riforme precedenti, di privilegiare lo strumento legislativo rispetto a tutto il resto: decine di nuove norme calate dall’alto senza il necessario accompagnamento, senza la costruzione di percorsi reali di cambiamento, senza l’empowerment delle organizzazioni, senza il coinvolgimento e l’ascolto dei diretti destinatari delle norme stesse.

Una visione condivisa anche dal Panel di quasi 700 intervistati che FPA ha voluto sentire per capire in che modo, secondo la loro percezione, i decreti attuativi della Madia e l’impianto stesso della riforma potranno impattare sul futuro del Paese, della pubblica amministrazione o semplicemente nell’esercizio del proprio essere cittadini, lavoratori pubblici o imprese. Per 7 su 10 “NON si tratta di una riforma rivoluzionaria negli effetti”, troppo centrata sulle norme perché “tutto è affidato a leggi e provvedimenti, ma mancano indirizzi programmatici e atti di gestione”. Tra le pecche della riforma rilevate dal panel anche quella di conferire troppo “potere alla politica” (67,3%). L’effetto sui “grandi mali” del paese sarà prevalentemente “nullo” per alcune questioni addirittura dannoso. Più del 30% risponde che si genererà un effetto “negativo” relativamente al “caos sulle competenze e le responsabilità”, lo “scollamento tra la politica e l’amministrazione”, i “divari territoriali”.

Ma accanto alle pecche, più o meno gravi, si intravedono valutazioni positive: miglioramenti sul fronte dell’accesso ai dati e ai documenti della PA (32,7% del panel dichiara di vedere un miglioramento), nella qualità e nell’accesso ai servizi on line (30,6%) e nella tutela dei diritti digitali di cittadini e imprese (19,2%). E ancora si avverte una riduzione nella “incertezza di regole e tempi” (35,1%), un recupero del gap di “fiducia tra cittadini, istituzioni e PA” e una miglior prevenzione dei fenomeni di “corruzione” e “spreco di denaro e risorse pubbliche” (lo sostiene oltre il 30% del panel). Tra i suoi meriti, ancora, quello di rileggere l’efficienza del Paese come un dovere della PA, realmente “civil servant”.

Quasi il 50% degli intervistati ritiene poi che la riforma non cambierà il proprio modo di essere cittadini (49,3%), mentre l’altra metà del panel – certa che le nuove norme porteranno cambiamenti – è divisa tra due visioni opposte: per il 31,8% “cambierà in meglio”, per il 18,9% invece si andrà peggiorando nell’esercizio della cittadinanza.

“Ancora una volta mettiamo in luce le contraddizioni di un paese che, a fronte delle difficoltà endemiche nel portare avanti processi di cambiamento, non riesce a valorizzare e a capitalizzare le spinte che vengono dal basso, dai diversi territori e città dove più forte ed efficace è, invece, la capacità di reagire alle sfide in atto. – commenta Gianni Dominici, Direttore generale FPA – Contraddizioni ancora più evidenti nel caso della pubblica Amministrazione, le cui scelte continuano ad essere troppo legate ad una cultura prevalentemente burocratica e verticale e poco capaci di interpretare e reagire ai cambiamenti in atto”.

Non c’è dubbio che lo scenario restituito dal Panel ricalchi perfettamente quelle “luci ed ombre” che attraversano tutta la ricerca di FPA e che costituiscono la cifra dei decreti attuativi della riforma approvati nel corso del 2016: il decreto sulla trasparenza (il cosiddetto FOIA italiano) ad esempio, partito da esigenze importanti e condivise, coglie, almeno in parte, il bersaglio pure nell’ambiguità di alcune parti delle norme attuative che rischiano di renderlo difficilmente operativo; l’accorpamento delle Forze di Polizia o la ristrutturazione del mondo camerale, sanano storture secolari con coraggio e nella giusta direzione. In altri casi invece, come ad esempio nel Codice dell’Amministrazione Digitale, i decreti introducono innovazioni troppo timide. Quel che è altrettanto certo è che i decreti pongono mano a problemi storici della nostra amministrazione, mostrando spesso buon coraggio riformatore. In che modo essi possono dunque diventare utili strumenti nel futuro prossimo, visto il pericolo in cui li pone l’attuale situazione politica, superando quei vizi metodologici che abbiamo visto affossare tutte le riforme precedenti?

Che le riforme siano più necessarie che mai, dimostra l’indagine, è un dato di fatto. La curva del PIL pro capite disegna oggi lo skyline di un paese che non ce la fa. Nel quale il persistere di una situazione di ristagno dell’economia – unitamente al divenire più fragili di alcuni degli asset culturali e sociali – sta deteriorando molti ambiti del benessere: l’istruzione e le competenze, l’occupazione, il reddito, l’abitazione, ecc. A ciò si aggiungano le valutazioni dell’Ocse, che con il suo “Better life index” relega l’Italia tra gli ultimi otto paesi per occupazione, ambiente, istruzione, sicurezza e soddisfazione.

Cosa succederebbe invece se – pur nei suoi limiti, nella sua perfettibilità- l’attuale piano di riforme fosse portato a compimento? Ancora una volta sono i dati OCSE a parlare: un impatto sulla crescita della produttività e del PIL dello 0,6% tra 5 anni, pari a circa 9 miliardi di prodotto interno lordo in più.

“Qualcosa già si muove per quelle parti della riforma che hanno trovato applicazione, a dimostrazione del fatto che una costanza nell’azione riformatrice potrebbe portare frutti molto più solidi di quelli –scarsi- raccolti fino ad oggi. – commenta Carlo Mochi Sismondi, Presidente di FPA – Per portare a pieno regime quelle riforme che ridarebbero slancio alla situazione socio economica del paese servono meno norme e più manuali e un investimento serio di risorse economiche, professionali e politiche che supportino la formazione e la partecipazione dei dipendenti della PA e l’empowerment delle organizzazioni e aumentino l’engagement e il coinvolgimento dei cittadini e delle imprese”.

L’ultima parte della ricerca FPA misura i cambiamenti in atto, attraverso una selezione di dati relativi alle azioni introdotte con alcuni dei decreti attuativi già entrati in vigore e una prima mappatura di alcune delle dinamiche già avviate. Così emerge come, a dicembre 2016, la crescita degli utenti Spid abbia subito una seppur timida accelerazione, grazie anche all’adozione di azioni promosse dal governo per incentivarne l’adozione (come ad esempio il bonus 18enni e il bonus docenti che possono essere ritirati solo con un’identità SPID), anche se siamo ancora lontanissimi dagli obiettivi: poco più di 400mila utenti sui 10 milioni che dovrebbero aderire entro fine 2017.

La parte di fatturazione elettronica verso la PA si sta assestando e consolidando, con 23.000 pubbliche amministrazioni centrali e locali soggette a fatturazione elettronica e una media di fatture pari a poco meno di 2.500.000 al mese nel 2016. All’ottobre 2016 risultano aderenti al sistema dei pagamenti elettronici 14454 amministrazioni, vale a dire circa il 62% degli Enti censiti sull’IPA alla stessa data (23.327). A fine Novembre 15 CCIAA hanno perfezionato l’iter e sono stati istituiti 7 nuovi enti accorpati portando il numero delle CCIAA da 105 a 97 (obiettivo: 60), con ricadute evidenti anche sui costi alle imprese. Per quel che concerne i “furbetti del cartellino” e la riorganizzazione dei procedimenti disciplinari per i pubblici dipendenti, rispetto agli ultimi tre anni cresce la percentuale di chi viene licenziato per le assenze e diminuiscono invece i casi in cui l’interruzione del rapporto di lavoro era collegata ai reati. Questo per citare solo alcuni ambiti: e per giungere alla conclusione che “eppur si muove”, e che la strada della continuità, perseveranza ed investimento è preferibile ad altri cicli normativi che porterebbero soltanto ad altre paralisi da sovrabbondanza normativa che è già la condizione attuale di molte amministrazioni, e l’unico vero nemico da sconfiggere.

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