Da decenni parliamo delle tecnologie digitali come il principale motore dell’innovazione nelle imprese. Ma mai come oggi dobbiamo chiederci cosa veramente significa “digital innovation”: giocando con le parole – anzi con gli anglicismi – digital transformation o digital disruption?
La prima è un’innovazione evolutiva, che “trasforma” principalmente come si fanno le cose in azienda (i processi, i canali con il consumatore, ecc.): pensiamo, ad esempio, alla vendita online (eCommerce), alla fatturazione elettronica tra imprese (eInvoice), alla raccolta ordini via smartphone (Sales Force Automation).
La seconda è un’innovazione discontinua, creativa, che “rompe” le regole della competizione, cambia radicalmente la logica del business: pensiamo a Uber, Airbnb, Spotify, tutte startup, che – puntando su modelli di business radicalmente nuovi, resi possibili dalle tecnologie digitali – stanno rivoluzionando interi settori, mercati (come viene ben spiegato nel libro “Big Bang Disruption” di Downes e Nunes).
Entrambe le dimensioni dell’innovazione digitale sono vere nella nostra “epoca”: ma la seconda, digital disruption, è la vera novità degli ultimi anni e sarà la principale fonte di snodi strategici imprevedibili in moltissimi mercati, snodi che potrebbero mettere in crisi il modello di business di molte imprese. Per questo motivo deve essere ben compresa e – nei limiti del possibile – governata in qualsiasi azienda.
Quali sono, in particolare, le implicazioni di questo scenario su colui il quale si occupa da sempre di tecnologie digitali e di innovazione digitale in azienda: il cosiddetto CIO – Chief Information Officer? Il suo ruolo sta cambiando – o meglio – dovrebbe cambiare.
Se digital disruption, infatti, vuol dire innovazione digitale che ha impatti sul modello di business e che spesso arriva da startup capaci di sfruttare le tecnologie digitali – sotto gli occhi di tutti – in modo creativo, non convenzionale, allora anche il CIO dovrebbe imparare a fare questo: a capire non solo le evoluzioni tecnologiche ma anche le possibili implicazioni di queste evoluzioni sul modello di business dell’impresa, su nuovi prodotti e nuovi mercati, in sintesi sugli sviluppi imprenditoriali dell’impresa stessa.
Mi piace evidenziare questo cambiamento con una diversa declinazione dell’acronimo. Il nuovo CIO è (dovrebbe essere) il Chief Intrapreneurship Officer: si, penso che proprio questa sia l’espressione che meglio sintetizzi il cambiamento che il “vecchio” CIO – Chief Information Officer – deve saper compiere. È chiaro che non sarà solo lui in azienda ad “occuparsi” di queste discontinuità strategiche: tutto il top
management deve essere coinvolto, a partire dal board naturalmente. Ma il CIO può giocare un ruolo chiave, ad esempio di scouting – non solo delle tecnologie ma anche delle startup più interessanti, dei modelli di business più innovativi; di alerting, cioè di segnalazione degli “atti di moto” imprenditoriali più innovativi che vengono dal mondo digitale e che possono interessare l’impresa; di pivoting, cioè di stimolo alla discussione nel management su come le tecnologie digitali possono cambiare la logica del business dell’azienda, i confini del settore e del mercato in cui opera.
Essendo un cambiamento non solo organizzativo ma anche – anzi soprattutto – culturale, una domanda è legittima e necessaria: quanti CIO saranno in grado di compierlo?
* Andrea Rangone, fondatore degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, è CEO di Digital360