La competitività delle aziende dipende sempre di più dalla capacità di gestire e promuovere la trasformazione digitale e l’innovazione imprenditoriale. Per questo nello scenario economico attuale assume un ruolo cruciale l’open innovation, che, secondo la definizione di Henry Chesbrough, il docente di Berkeley che per primo ha coniato l’espressione oltre 10 anni fa, è “il nuovo imperativo per creare e trarre profitto dalla tecnologia”.
L’espressione, ormai sempre più diffusa, indica un modello di innovazione secondo il quale le imprese, per creare più valore e competere meglio sul mercato, non devono basarsi soltanto su idee e risorse interne ma possono decidere di ricorrere a strumenti e competenze tecnologiche che arrivano dall’esterno, in particolare da startup, università, istituti di ricerca, fornitori, inventori, programmatori e consulenti.
Un modello che potrebbe rivelarsi estremamente utile al sistema italiano delle imprese, in molti casi alle prese con ritardi di tipo tecnologico, culturale e finanziario. Per questo il 2016 dovrebbe essere considerato l’anno dell’open innovation. Perché le aziende devono riuscire ad agganciare la ripresa economica e non perdere il treno dell’Industria 4.0, e non basterà più, a questo scopo, inventare un nuovo prodotto o una campagna di comunicazione più creativa e digitale del solito. È arrivato il momento di cambiare pelle.
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Oggi non solo nuovi prodotti, ma intere linee di prodotto vengono create o distrutte nel giro di pochi mesi.
In un contesto in rapido cambiamento, caratterizzato da un aumento dei costi interni di ricerca e sviluppo
e da una contemporanea riduzione rispetto al passato del ciclo di vita dei prodotti, è necessario ripensare
i processi tradizionali. È chiaro che aziende tradizionali e consolidate non possono fare leva sugli
asset che caratterizzano invece le startup: velocità, focus, flessibilità.
“Le multinazionali sono come dinosauri che hanno nel loro ventre tante uova pronte a schiudersi, le startup” spiega Solomon Darwin, direttore esecutivo del “Garwood Center for Corporate Innovation” dell’Università di Berkeley, in California, tra i più importanti centri americani che si occupano della materia, dove peraltro lavora Chesbrough. “I big – prosegue Darwin – devono costantemente sviluppare nuovi prodotti, perché quelli che in origine erano ‘core’ in futuro potrebbero non essere più vitali per il mercato e le società potrebbero morire. Per questo hanno bisogno delle giovani company”.
Molte aziende falliscono perché agiscono con i paraocchi, ovvero sono troppo concentrate sul proprio percorso di innovazione e trascurano gli input esterni, dai quali dipende il loro successo, scrive Ron Adner in The wide lens, uno dei testi utili a capire il fenomeno, oltre naturalmente al “testo sacro” scritto da Henry Chesbrough nel 2003 e intitolato semplicemente “Open Innovation”.
Grandi e piccole imprese, principalmente quelle digitali, devono attrezzarsi per affrontare la sfida del cambiamento. Uno dei modi per farlo è adottare il modello dell’open innovation. E se si parla di Digital e Open Innovation non si può certo trascurare l’iniziativa di Digital360: una piattaforma che a 360° tocca tutti i temi dell’innovazione aperta. I migliori contenuti su questi temi sono inoltre raccolti in un white paper elaborato da EconomyUp nell’ambito del progetto #OpenInnovationSet, un mese dedicato all’argomento, con quattro webinar e quattro white paper.