“In moltissimi Paesi c’è sempre di più attenzione verso un’innovazione di tipo aperto: significa che le aziende devono innanzitutto aver definito una loro strategia di innovazione, ma poi devono saper guardare all’esterno e individuare i canali attraverso i quali questa innovazione possa essere integrata all’interno. Anche le imprese italiane dovrebbe prendere questa direzione. Però è necessario un elemento in più: il capitale di rischio, che purtroppo nel nostro Paese è molto ridotto”. A dirlo in un’intervista a EconomyUp è Francesco Profumo, oggi presidente di Iren Spa, multiutility attiva nei settori dell’energia elettrica, dell’energia termica per teleriscaldamento, del gas, della gestione dei servizi idrici integrati, dei servizi ambientali e dei servizi tecnologici. “Nate in ambito monopolistico, a volte aziende come la nostra hanno cancellato la parola innovazione: io credo invece che possano svilupparsi solo attraverso il suo perseguimento” dice Profumo, ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel governo Monti ed ex presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche.
Quanto è importante l’open innovation per le aziende italiane?
L’innovazione è caratterizzata da una variabile indipendente: il tempo. Le aziende consolidate, che hanno le loro competenze e regole, hanno anche i loro tempi. Ma l’innovazione
non può aspettare: se non la utilizziamo noi, lo faranno altri. È chiaro che il processo non è semplice, è in primis un processo di tipo culturale. A mio parere servono delle forme di ‘fidanzamento’ tra le due realtà: l’azienda che fa innovazione e chi la realizza sui territori e nelle università. In questo momento c’è grande capacità di creatività, gran voglia di fare, e non bisogna non mortificarla. Perciò l’azienda può cominciare ad acquistare sistemi dalla startup. Oppure può farle da veicolo di tipo commerciale, garantendole le risorse necessarie a questo tipo di operazione. Il terzo grande passo è l’acquisizione della startup che abbia sistemi e prodotti in grado di essere integrati all’interno del gruppo aziendale. È un processo sul quale il Paese deve impegnarsi.
C’è ancora resistenza da parte delle grandi società?
In molti casi questi gruppi hanno strutture interne di innovazione e quindi esiste un certo conservatorismo, all’insegna del motto: “Dobbiamo fare da noi”. Invece occorre che il management abbia la forza e la capacità di convincere gli altri che sono in ballo due questioni fondamentali: la qualità dell’innovazione e il tempo in cui l’innovazione diventa prodotto e business. L’Europa, come ha detto Barroso, ha realizzato un grosso investimento in ricerca ed è quindi stata in grado di attuare il trasferimento da euro in conoscenza. Adesso la vera sfida è trasformare una parte di questa conoscenza in euro.
Una grande impresa può fidarsi di una startup?
È vero, esiste il tema del trust, della fiducia. Lo si ottiene relazionandosi. È chiaro, queste cose non si inventano, non si può pensare ad eventi occasionali. Bisogna investire, soprattutto in cultura. Ed è necessario che ci sia un elemento in più: il capitale di rischio.
Che è piuttosto scarso nel nostro Paese.
Purtroppo è così: sono circa 60/70 milioni all’anno, molto poco rispetto agli altri Paesi europei, per non parlare degli Stati Uniti dove raggiunge decine di miliardi. Il venture capital deve mettere in atto la politica dei mille fiori: investire un po’ qua e un po’ là. In certi casi non dà risultati, in altri diventa un moltiplicatore interessante dell’investimento. Ma per portare avanti questa politica ci vogliono centinaia di milioni. Attenzione: non può essere un’operazione fatta dalle banche, che hanno altre logiche. Il capitale di rischio gioca sulla potenzialità, le banche fanno una valutazione degli asset. Detto questo, negli Usa per anni c’è stato un fiorire di attività di capitale di rischio sulla East e West Coast. Adesso si stanno spostando a Londra e Berlino, e mi auguro che a poco a poco si trasferiscano nel nostro Paese.
Ha senso il venture capital pubblico?
Sarebbe molto importante che ci fosse un intervento di tipo pubblico.
Ce ne sono già: il Fondo dei Fondi di venture capital del Fondo Italiano d’Investimento, Italia Ventures…
Sì, ma è un intervento troppo frammentato. In questo settore bisogna fare massa critica. Avere a disposizione 200 milioni, divisi in 10 fondi da 20 milioni ciascuno, è completamente diverso dall’avere 200 milioni in un fondo unico.
A proposito di open innovation, cosa sta facendo Iren?
Ha elaborato un piano di innovazione, ha individuato le priorità e poi ha stabilito un sistema di clusterizzazione rispetto ai luoghi in cui si fa l’innovazione, quali università e centri di ricerca. Infine ha intrecciato relazioni importanti: una è quella con il Premio Nazionale per l’Innovazione (PNI), di cui Iren è main sponsor per il secondo anno consecutivo. Si tratta della più grande e capillare business plan competition d’Italia, promossa dall’Associazione Italiana degli Incubatori Universitari–PNICube e giunta alla sua tredicesima edizione. Sessanta idee sulle quali costruire e sviluppare imprese vincenti, ad alto contenuto innovativo e tecnologico, nei settori portanti dell’economia del Paese. È un progetto che consente di fare un po’ la sintesi dell’Innovazione: quale migliore palestra per un’azienda…