“Talvolta si è vittime della rivoluzione che si racconta”. È l’emblematico tweet di Stefano Epifani, docente universitario e direttore di TechEconomy, a proposito del pesante ridimensionamento di Wired, il mensile della Condé Nast: da dieci a due numeri l’anno (che saranno realizzati da un service esterno) e il taglio di 6 giornalisti su 12.
Ma quello di Epifani è solo uno dei tanti commenti apparsi sui social network e su Internet. Primo fra tutti il post di Riccardo Luna, direttore della testata dal 2008 al 2011: intitolato “Lunga vita a Wired (e la vera storia di come è iniziato tutto)”, l’articolo dell’attuale Digital Champion italiano rievoca il percorso che lo ha portato alla guida del mensile e i momenti topici di questa avventura, con una premessa: “Ora che tutti dicono che Wired è finito, mentre giustamente il primo pensiero va ai giornalisti che saranno licenziati, alle loro famiglie, agli abbonati che ci hanno creduto fino all’ultimo e a tutti quelli che lo hanno amato”.
Molti sono legati alla testata, fondata a San Francisco nel 1993 da Louis Rossetto e Nicholas Negroponte, così su Twitter è nato l’hashtag #iostoconwired. L’hanno utilizzato giornalisti come Anna Masera, responsabile dell’Ufficio Stampa e della Comunicazione della Camera dei Deputati e giornalista de La Stampa (Commento: “Sigh, mi dispiace molto”) ma anche protagonisti dell’innovazione imprenditoriale come Benedetta Arese Lucini, general manager di Uber Italia, che scrive: “Sto con i giornalisti che lavorano per mantenere il diritto a innovare in Italia”. “La storia di Wired, che passa da dieci a due numeri l’anno e dimezza la redazione, è davvero significativa e triste” twitta anche Claudio Giua, direttore Sviluppo e innovazione del Gruppo Editoriale L’Espresso. “Peccato che si spenga una voce che raccontava la rainforest italiana (che a uno piacesse oppure no). E per fortuna che due settimane fa l’azienda definiva Wired ‘un brand fondamentale, uno dei tre pilastri del futuro di Condé Nast Italia’” è il commento su Facebook di Francesco Inguscio, AD e fondatore di Nuvolab, business accelerator per startup innovative.
In Rete si è formato un altro fronte più critico nei confronti dell’edizione italiana della testata definita la “Bibbia di Internet”, un fronte che pone delle domande. Come quelle formulate su Facebook da Massimo Melica, avvocato esperto di tecnologia: “Ma è il digitale che elide i posti di lavoro o un giornale senza più contenuti e qualità che ha allontanato i lettori? Momenti più razionali si avvicinano e le fiabe digitali sembrano avviarsi verso il tramonto”.
Lo stesso Epifani, dopo il lapidario tweet ricordato sopra, elabora: “In Italia, al netto di giornalisti bravissimi impegnati in progetti online davvero originali e unici in Italia (si pensi al Data Journalism), Wired non ha mai saputo trovare una ‘misura’. O troppo visionario o troppo gadgettistico…”.
“Quando un giornale di carta chiude o riduce non è mai una bella notizia” aggiunge Arturo di Corinto, giornalista, saggista e attivista per i diritti digitali. “Ad ogni modo – prosegue – quando succede vuol dire che la pubblicità non tira e che si vende meno in edicola. A questo si aggiungono i costi fissi della redazione, salari, logistica, attrezzature, manutenzione che si sono fatti elevati. Il punto vero è che la gente, noi, leggiamo sempre meno giornali di carta, chi per inclinazione al digitale, chi per risparmiare, chi perché non ci trova niente di interessante e utile per la propria vita”.
Anche Sergio Pillon, esperto di telemedicina e founder di una startup in campo biomedicale, riflette sulla vicenda: “La fatica vera nel digitale non è trovare la notizia ma raccontarla in un modo che sia più interessante e completo dei mille blog, RSS, comunicati… ‘Bucare’ la rete non è facile e Wired lo fa raramente. Darwin ha fatto il resto…”.
E qui si apre il dibattito sui contenuti. Sui social si trovano gli entusiasti di Wired così come i critici. Comuni lettori, non personaggi noti, ma che ci tengono a dire la loro. Tra i primi c’è Paolo Franceschini, un giovane di Vignola, che scrive sul gruppo Facebook di Italian Startup Scene: “A me piaceva molto: dalla grafica agli articoli. Ne ho sempre un paio di copie sul comodino, una nello zaino. La versione online l’ho sempre trovata caotica e di lettura difficile…Peccato davvero”. Nicholas Figoli, che lavora presso un’agenzia pubblicitaria, scrive: “Mi dispiace davvero.. era probabilmente l’unico tentativo di fare una rivista che accendesse il cervello. Ma va segnalato che è partito con in copertina Rita Levi Montalcini e finito con un gattino, formula magica per sfondare sul web”.
Caustiche alcune osservazioni del critici, quelli a cui Wired proprio non piace o ha smesso di piacere con il tempo: “I primi numeri seguivano una traccia segnata dal Wired US. Con il susseguirsi dei numeri l’unica cosa rilevante erano diventati i fumetti di Zerocalcare” annota Remo Bonfante. “Non è mai stato ai livelli di Wired UK, men che meno USA” aggiunge Antonio Autiero. “Io personalmente non ho ritenuto necessario seguirlo proprio per questo motivo. C’è da dire anche che, se fatto bene (meglio di com’è stato portato avanti fino ad ora) ha più senso di esistere sul web. Il mercato italiano non è così vasto da potersi permettere una rivista di assoluta nicchia che non ha le sue radici culturali nell’offline”.