Innovazione vs burocrazia

Carta d’identità elettronica, perché ci vogliono ancora 6 mesi per averla?

Mentre a Roma al ForumPA si discute di innovazione e pubblica amministrazione, a Milano bisogna mettersi in lista per avere il documento digitale. Eppure è stato introdotto 18 anni fa, con un investimento ad oggi di almeno 60 milioni. Risultato: lo rilasciano solo 200 comuni su 8000. Ecco la sequenza di annunci, bozze e promesse

Pubblicato il 26 Mag 2015

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La notizia non è nuova ma è proprio questa la notizia: nulla è cambiato per quanto riguarda il rilascio della carta d’identità elettronica (Cie) a Milano. Sei mesi ci volevano nel 2012 per ottenerla dal Comune, sei mesi ci vogliono ancora. È sufficiente solo un giorno, invece, per quella cartacea. Il problema ci è stata segnalato da alcuni lettori milanesi ma, quando abbiamo approfondito l’argomento, ci siamo resi conto che la situazione era da anni stazionaria e già segnalata in passato sui media, purtroppo senza alcun esito. A Roma non va molto meglio: è rilasciata da un unico Municipio, il VII, che dovrebbe servire dunque una popolazione di 3 milioni di abitanti. Per averla bisogna recarsi fisicamente presso quel Municipio, prendere un appuntamento (quindi bisognerà necessariamente tornare una seconda volta) e infine pagare 20 ero per l’emissione della carta più 5,42 per il “modulo di richiesta da acquistare allo Sportello della Tesoreria”.

Tra i vari proclami sulla necessità di un’Italia più digitale, spicca questa clamorosa – e ormai annosa – contraddizione: bisogna ricorrere alla “vecchia” carta per sbrigarsi, la dematerializzazione (pensata per snellire i processi) richiede, evidentemente, molto più tempo. Eppure questo tipo di card è stato introdotto per legge nel nostro Paese ben 18 anni fa. Oltre un decennio di sperimentazione e almeno 60 milioni di euro di investimenti (ma per qualcuno molti di più) hanno portato alla emissione di 4 milioni di carte d’identità elettroniche da parte di soli 200 sugli 8000 Comuni italiani. Del resto è sufficiente una constatazione empirica per capire la storia di un fallimento: nei nostri portafogli ci sono al 90% carte d’identità cartacee.

Per chi non lo sapesse, la carta d’identità elettronica è un rettangolo di plastica che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe essere un documento digitale unico per garantire l’accesso a tutti i servizi della pubblica amministrazione, ma finora ha semplicemente integrato il codice fiscale e ridotto l’ingombro nel portafoglio.

L’idea di una card di questo tipo ha radici lontane, nel 1997, quando l’allora ministro per la Funzione Pubblica, Franco Bassanini, firma la prima grande legge sulla semplificazione amministrativa. Le norme prevedono la progressiva sostituzione della carte di identità cartacee con quelle digitali, sul modello di quanto si stava facendo con le patenti.

All’epoca Bassanini dà per imminente la diffusione delle prime carte, aggiungendo che sarebbero state “a prova di falsificazione. Stiamo studiando — commenta — se sia possibile inserire anche dati biometrici, come le impronte digitali o la mappa dell’iride”. Scenario futuristico che, 18 anni dopo, resta tale.

Passano comunque ancora due anni, tra definizione di specifiche tecniche e modalità di rilascio in altri 4 decreti, prima che qualcuno abbia materialmente in tasca o nel portafogli le prime carte elettroniche Ma le mani che la toccheranno non saranno mai molte. Il primo esemplare di Cie viene consegnato il 17 marzo 2001 a Napoli tra flash e telecamere al cittadino napoletano Paolo Mossetti dall’allora ministro degli Interni Enzo Bianco, che dichiara: “Entro quattro anni il governo sarà pronto ad assegnarla a tutti i cittadini”. Parte la sperimentazione in 200 Comuni italiani ma il progetto non decolla e intanto l’esecutivo cambia colore.

Nel 2005 un decreto del governo Berlusconi – ministro per la Pubblica amministrazione Lucio Stanca – stabilisce che dal primo gennaio 2006 gli 8.000 comuni italiani dovranno mandare al macero il cartoncino e rilasciare solo le tessere elettroniche. Per realizzarle viene scelta “Innovazione e progetti”, società controllata da Poligrafico dello Stato e Finmeccanica, che dovrebbe finalmente consentire di raggiungere il traguardo. Si fissa anche il prezzo: 30 euro a tessera.

Poi arriva il secondo governo Prodi (ministro della Funzione pubblica è Luigi Nicolais, oggi presidente del Cnr) e il costo viene ridotto a 20 euro. Proprio la diminuzione dei costi però, che costringe a rivedere il piano di business iniziale, insieme ai dubbi sulle procedure di affidamento seguite spingono verso la liquidazione della società incaricata. L’incarico passa al Poligrafico. Ma Finmeccanica non ci sta, presenta ricorso e blocca i bandi per la fornitura delle apparecchiature. Tutto da rifare.

Nel 2011 Berlusconi ci riprova: il decreto sviluppo la reintroduce per tutti i cittadini, bambini compresi. Per i dettagli, però, si rinvia ad un decreto attuativo del ministero dell’Economia e della Finanza che non vedrà mai la luce.

L’anno dopo è il turno dei professori del governo Monti. Il Decreto Crescita 2.0 contiene i provvedimenti sull’Agenda digitale e, tra le soluzioni per dare impulso all’innovazione del Paese, inserisce il “Documento digitale unificato”. All’articolo 1 del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 si legge “Un nuovo documento digitale unico sostituirà la carta d’identità e la tessera sanitaria e offrirà al cittadino la possibilità di accedere in via telematica ai servizi erogati dalle amministrazioni pubbliche. Appositi decreti stabiliranno le modalità attuative del nuovo documento, che verrà rilasciato progressivamente”. In realtà la scelta di Monti di spingere sulla nuova carta di identità elettronica non convince del tutto i Comuni. “Le regole tecniche – fanno sapere dall’Anci – stabiliranno anche quanto dovrà costare ai Comuni la nuova card. Nonostante siamo convinti che l’Agenda debba andare avanti, restiamo comunque preoccupati per la situazione delle finanze locali, strozzate dal patto di stabilità che ci impedisce di fare investimenti seppure anticiclici come quelli in innovazione”. Insomma: mancano i soldi per la Cie.

Il documento digitale unificato (Ddu) previsto dal governo Monti doveva essere distribuito a partire dal 2013 dopo l’emanazione del decreto attuativo. Che fine ha fatto? Sul sito dell’AgID (Agenzia per l’Italia digitale) ci sono le regole tecnologiche in bozza, che dovevano essere pubblicate dal Ministero dell’Interno. Sono state poi pubblicate?

Il Ddu comunque è legato a doppio filo con l’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (Anpr), uno dei tre progetti per la digitalizzazione del Paese enunciati da Francesco Caio, già Digital Champion italiano. Progetto, quello dell’Anpr, che dovrebbe essere operativo entro il 2016 con l’obiettivo di mettere ordine nelle oltre 50mila banche dati gestite dalla PA, ma che rischia di trovare non pochi ostacoli nel percorso di attuazione, nonostante dal punto di vista normativo Palazzo Chigi abbia fatto la sua parte con il Dpcm del 2014 sulle modalità di funzionamento dell’Anagrafe e nonostante in questi mesi si stia lavorando a uno schema di decreto che aggiornerà il funzionamento delle anagrafi comunali.

Nel frattempo vengono ancora distribuite le Cie. Ma solo da alcuni. Allo stato attuale ci sono Comuni che di elettronica proprio non vogliono sentire parlare e altri, come Milano, che fanno attendere 6 mesi. Questo succede perché il Comune lombardo ha poche macchine che producono carte con il microchip. E i soldi per comprarne di nuove non ci sono.

In più c’è un altro piccolo dettaglio: quando hanno portato la validità della Cie da 5 a 10 anni qualcuno hanno avuto la brillante idea di consegnare all’utente un adesivo tipo quello del rinnovo della patente. Si possono immaginare i problemi per chi ha provato ad usarla all’estero.

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