Venture Capital

Imprenditori, perché non investite sull’innovazione?

Andrea Di Camillo, founder di P101, racconta la fatica fatta per raccogliere i capitali del fondo. “Manca ancora una cultura di investimento sulle nuove imprese. Le risorse a disposizione sono ancora poche”

Pubblicato il 04 Feb 2014

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Andrea Di Camillo, Founder e Managing Partner di P101

“Ogni tanto mi chiedo, e me lo sono chiesto spesso durante il 2013: ma perché sto facendo tutta questa fatica per fare un lavoro molto difficile, in un contesto ostile e dovendoci pure mettere anche i miei pochi denari anziché continuare a fare l’imprenditore?”. Andrea Di Camillo, 43 anni, scopritore-investitore di startup, promotore dell’operatore di venture capital P101, è riuscito a trovare una soluzione positiva alla sua domanda: “Dal punto di vista finanziario la risposta ce l’avrò solo con il tempo e sono molto fiducioso, ma soprattutto dal punto di vista personale veder crescere velocemente tanti nuovi progetti, imprenditori e idee che poi ritrovo nella quotidianità anche come cliente mi gratifica”.
A Milano Di Camillo insieme a Marco Magnocavallo ha creato una casa per le startup su cui ha puntato, Boox, dove alloggiano sigle ormai note come Cortilia, Tannico o Cibando. Per il progetto ha scelto il nome del calcolatore da tavolo Olivetti considerato l’antenato del personal computer, perché crede che l’innovazione non sia solo una questione di soldi ma di cultura imprenditoriale, che in Italia deve rigenerarsi come accadde decenni addietro a Ivrea. Ha cominciato il 2014 con una raccolta di 32 milioni di euro, coinvolgendo Azimut e Fondo Italiano d’Investimento oltre il management e i promotori. Entro la fine di quest’anno punta a 50/60 milioni. Ma non sarà facile. Basta ricordare le fatiche del 2013 per capire perché.

“Ho cominciato il fund raising di P101 a dicembre 2012. In 12 mesi ho fatto circa 300 incontri con oltre 170 diversi potenziali investitori, la stragrande maggioranza dei quali italiani. Di questi solo 5/6 investiranno in P101. Probabilmente io sono un pessimo fundraiser, ma c’è qualcosa che non torna. Certo questa situazione potrà migliore con l’entrata in vigore dei benefici fiscali per chi investe, però penso anche che gli imprenditori italiani debbano fare un piccolo sforzo culturale: capire il valore dell’investimento nel venture capital non solo come scelta finanziaria ma anche come un modo di avere, a basso costo, una lente sul mercato dell’innovazione e uno strumento per permettere a nuovi e giovani imprenditori di creare aziende, posti di lavoro e nuova ricchezza che alimenterà questo circolo virtuoso”.

Dopo i passi avanti fatti nel 2013, che cosa manca ancora? Su che cosa bisognerà concentrarsi nel 2014?
L’ecosistema sta mettendo a disposizione della nuova generazione di imprenditori sempre più competenze ma ancora poche risorse. Non solo intese come finanziamenti ma anche come cultura dell’investimento che riconosca la possibilità a una nuova azienda di andare oltre la fase di avvio e di sviluppare un business che generi sì ritorni per gli investitori ma anche occupazione. Mancano gli operatori che allevino nuovi professionisti degli investimenti con questa cultura. Per questo ritengo che uno o più fondi dei fondi, che permettano di sviluppare un sistema di investitori qualificati, sia un pezzo fondamentale che ancora manca. Faccio un esempio: tutti abbiamo letto della superexit di Nest. Prima ancora di pensare alla Google di turno che a noi manca, c’è da riflettere sulla dimensione dell’investimento: 165 milioni di dollari. Bene, oggi in Italia quella cifra rappresenta più o meno il totale dei fondi disponibili sul mercato per tutte le possibili Nest…

Qual è il punto debole dell’ecosistema italiana e il punto di forza?
A dispetto della definizione l’ecosistema italiano è scarsamente strutturato e i suoi attori interagiscono poco. Uno degli obiettivi di P101 è quello di creare un network di startup, incubatori, imprese, investitori e professionisti per condividere esperienze, know-how e risorse, ma anche per unire le forze nel chiedere riforme e interventi a favore dell’innovazione. La debolezza del sistema è però oggi anche la sua grande opportunità, che noi abbiamo già iniziato a cogliere, unendo le forze con i principali acceleratori italiani, come H-Farm e Nana Bianca.

Le nostre startup sono ancora poche o già troppe?
Sicuramente non saranno mai troppe. Il punto vero è la qualità dei progetti, il focus degli imprenditori, e in molti casi l’assenza di cultura dell’impresa in quanto entità economica dotata di regole e finalità ben chiare: a volte invece vedo progetti imprenditoriali in cui la raccolta di capitale coincide con un presunto successo. Dovrebbe essere più chiaro che dal momento in cui si raccolgono i soldi da altri soci e dagli investitori aumentano le opportunità ma anche le responsabilità e il “livello dell’asticella” si alza. Per far finta che non sia così si fa ricorso al falso mito della cosiddetta “cultura del fallimento” che viene interpretato in una versione italica abbastanza pericolosa.

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