Caro Renzi, la rivoluzione digitale non è una passeggiata /ultima parte

Per costruire una via italiana sono cinque i filoni da cui ripartire. Il più importante è la formazione. In secondo luogo va accettata la piccola dimensione come dato di fatto dell’economia italiana. Bisogna poi concentrare le competenze su settori in cui abbiamo storia e competenza (dal turismo all’agroalimentare). Quindi serve un coinvolgimento della ricerca pubblica sul digitale. Infine è necessario un uso diverso delle risorse pubbliche.

Pubblicato il 19 Mar 2014

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Andrea Granelli

Per costruire la via italiana al digitale i filoni da cui ripartire sono cinque. Il più importante (e per me prioritario) è certamente il tema educativo. Oggi tutta l’enfasi è sull’alfabetizzazione e non sulla creazione di una vera e propria cultura digitale (e questo non è un semplice gioco di parole). Alfabetizzare vuol dire istruire, addestrare all’uso di uno specifico strumento (che si ipotizza utile e adatto). Il concetto richiama quello che i coloni facevano per portare un po’ di civiltà agli indigeni “ignoranti”). Quello che invece serve è la creazione di una consapevole cultura digitale, che ha come obiettivo fertilizzare e coltivare campi già produttivi o che oggi producono poco e non necessariamente creare solo nuove attività (come le apps, i makers, …). Oltretutto anche nella cosiddetta eEducation – l’apprendimento mediato dal digitale – l’attenzione è oggi tutta sull’eTeaching (produzione di nuovi e sfavillanti contenuti educativi in formato digitale) e quasi nulla viene fatto sul vero eLearning, per assicurarci che quella conoscenza venga davvero assimilata e riutilizzata dai discenti.

In secondo luogo bisogna accettare la piccola dimensione come dato di fatto, come caratteristica di una parte rilevantissima dell’economia italiana (piccole aziende, artigiani, professionisti, ex “coltivatori diretti”, …) e invertire l’approccio alla costruzione e vendita delle soluzioni digitali, passando da “come possiamo mettere in condizioni le aziende di capire e comprare le offerta che abbiamo a portafoglio” a “come possiamo identificare i reali bisogni di questa tipologia di attori economici e costruire delle soluzioni ad hoc che li soddisfino, rafforzandone la tenuta competitiva”. Il mito della crescita ha condizionato anche lo sviluppo delle applicazioni digitali, pensate per aziende grandi o che cresceranno.

Il terzo suggerimento è concentrare le competenze digitali del Paese verso settori dove potremmo costruire un’offerta competitiva ed esportabile: pensiamo alla protezione e valorizzazione del patrimonio culturale, al turismo delle città d’arte, alle infinite applicazioni dal digitale al settore agroalimentare, alle sfide del welfare legate all’invecchiamento della popolazione, che vedono il nostro paese non solo tra i paesi con la maggiore incidenza di anziani sulla popolazione, ma anche un luogo ideale per vivere dal punto di vista climatico e che ha sperimentato forme molto innovative (diremmo modelli di business) fra terzo settore e mondo del volontariato e luoghi di eccellenza.

Il quarto spunto è lanciare una grande attività di R&D sul digitale che coinvolga anche la ricerca pubblica – naturalmente in forte collegamento con il settore privato. È uno dei settori di punta del futuro e non può innovare solo con le start-up. Le grandi multinazionali ci considereranno sempre di più un mercato di sbocco e non un luogo di sviluppo e innovazione se non vi sarà una ricerca pubblica di eccellenza, come è stato per la chimica, per l’automotive ed è ancora per la biologia, la farmaceutica, l’aerospazio, …

Infine bisogna usare in modo diverso le risorse pubbliche per finanziare l’innovazione, la “messa a terra” della ricerca. E quindi la mano pubblica – come oltretutto ci suggeriscono le recenti indicazioni comunitarie e come notava il neoministro Padoan in una recente intervista – potrebbe ridurre i finanziamenti a fondo perduto per creare nuove imprese o finanziare prodotti che non andranno mai sul mercato. Al suo posto, potrebbe iniziare a comprare prodotti e servizi innovativi che migliorino in senso radicale servizi della PA. Come noto la PA contribuisce per una parte significativa al PIL nazionale e una qualificazione di questa spesa potrebbe avere un grande impatto sull’innovazione; ed questa l’indicazione che ci viene dall’Europa e che i tecnici chiamano Pre-commercial Public Procurement. Comprando meglio e oltretutto prodotti e servizi innovativi, si finanzia l’innovazione, schermando oltretutto le imprese che vogliono innovare dalla scure omologante del “minimo ribasso”.

Tirando le somme, il fenomeno delle Smart Cities, le nuove soluzioni Cloud, la diffusione dell’Internet “delle cose”, la rivoluzione dei FabLab, … possono davvero dare all’Italia un vantaggio competitivo, purché rafforzino ciò che sappiamo fare e che abbiamo sempre fatto, potenziandolo (e – naturalmente – correggendone gli errori ed eliminandone le obsolescenze). Non è certo snaturando il nostro sistema produttivo e inseguendo un modello di impresa (e di città) ideale e lontano dalle nostre radici – da raggiungere a forza di alfabetizzazioni forzate e sussidi di uno Stato sempre più povero – che troveremo la via del rilancio economico e daremo al digitale il posto che giustamente gli spetta nell’economia del XXI secolo.

Caro Presidente, spero che queste veloci riflessioni ti siano utili e ti auguro un pieno successo per il tuo mandato

*Andrea Granelli è fondatore della società di consulenza Kanso, già creatore di Tin.it

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