Lo studio

Sharing economy, che cos’è in Italia e come sta cambiando

Gli utenti apprezzano la comodità dei nuovi servizi, con il rischio di banalizzare il senso sociale del nuovo paradigma economico, osserva Federico Capeci, CEO Italy di Kantar TNS. Ma c’è anche una grande opportunità: l’adesione del mondo imprenditoriale

Pubblicato il 15 Nov 2016

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Federico Capeci

Il 15 e il 16 novembre si svolge a Milano la quarta edizione di Sharitaly, evento sull’economia della collaborazione. Kantar TNS presenta lo studio Sharing Economy 2016, che analizza il fenomeno in Italia ed in altri 4 Paesi Europei (UK, Spagna, Francia, Germania). Ecco un intervento di Federico Capeci, Chief Digital Officer e CEO Italy della società.

Cresce la sharing economy in Italia, ma di cosa si tratta? Siamo oramai giunti al capolinea della definizione originaria, quella che premiava la spinta collaborativa tra gli individui a scambiarsi beni e servizi da basso. Dobbiamo infatti approcciare gli studi, le considerazioni sociali ed economiche in modo più allargato o almeno riconoscerne le differenti componenti fondative.

Forse per questo i dati sulla sharing economy hanno sapore diverso a seconda della prospettiva dalla quale li si guardano: da un lato la sharing economy sembra non crescere rispetto al passato (le persone che hanno provato servizi collaborativi, descritti come servizi di condivisione di beni e servizi tra individui, è passata dal 25% dell’anno scorso al 27% di quest’anno, flat dopo la crescita iniziale dal 13% del 2013 al 22% del 2014). Dall’altro lato la dimensione dell’uso di servizi specifici di sharing (non solo quelli definibili in modo ristretto “sharing econnomy”, quindi da Uber a Blabla Car, da AirBnB al social street) è ben più alta ed in crescita (dal 39% dell’anno scorso al 53% di quest’anno).

Cresce quindi la penetrazione dei servizi di uso condiviso, non cresce, invece, l’economia della condivisione della proprietà individuale. Inoltre, l’effetto dell’ingresso nel mercato delle multinazionali commerciali, da Uber a Airbnb ed Eni, se da un lato ha generato una sostanza economica non banale e nuova per modello di business, dall’altro lato, però, sta rischiando di annegare il concetto originario della sharing economy, tradizionalmente fondato su tre motivazioni di base: il desiderio di condivisione di esperienza, un certo senso etico e di anti-consumismo, l’imprenditorialità. Oggi infatti, il principale motivo riportato dagli utenti dei servizi di sharing risiede nella comodità e nel risparmio economico, mentre gli aspetti su citati assumono rilevanza secondaria e relativa, presenti solo in limitate situazioni di scambio.

Quali rischi e opportunità? Il rischio più evidente è quello di banalizzare il vero senso sociale di questo nuovo paradigma economico: se viene percepito dagli utenti come “semplice” servizio alternativo ai quelli più canonici, tenderà a non sfruttare appieno le potenzialità dei nuovi ed emergenti trend sociali e di consumo. In termini di opportunità si intravede un più concreto spiraglio per l’adesione a questo nuovo modello del mondo imprenditoriale, se le aziende di beni e di servizi sapranno interpretare al meglio la trasformazione dei propri modelli di business. Come? Decidendo, per esempio, cosa condividere e dare in uso ai propri consumatori: un’expertise specifica, un impianto produttivo, un packaging, una competenza di comunicazione? Esempi possono essere migliaia, ma l’idea di base rimane la stessa: e se l’impresa, come i cittadini, iniziasse a condividere i propri beni e asset industriali con i propri consumatori?

* Federico Capeci è Chief Digital Officer e CEO Italy di Kantar TNS

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