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Startup, 8 venture capitalist spiegano perché in Italia si investe poco

Da noi i soldi per le startup scarseggiano. Mancano la cultura, i capitali o le buone idee? Alcuni tra gli investitori più autorevoli del Paese provano a rispondere e a individuare le cause del fenomeno

Pubblicato il 26 Apr 2016

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E’ la domanda che serpeggia sempre, più o meno palesemente, nell’ambiente delle startup e che rimane sempre insoddisfatta. Abbiamo provato a mettere insieme alcune delle ragioni, rivolgendo agli investitori questa domanda: “Perchè in Italia ci sono pochi soldi per le startup? Manca la cultura, mancano i capitali, mancano le buone startup?”

Ecco la risposta dei primi 8 investitori, tra i più conosciuti e autorevoli in Italia, che hanno prontamente risposto alla nostra (prima e non ultima) AMA session (Ask Me Anything), che coinvolgerà anche i nostri lettori.

Diana Saraceni – Panakes

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“Le startup promettenti in Italia non mancano, siamo un paese ricco di eccellenze nel settore delle tecnologie e della ricerca scientifica, che riescono a raggiungere grandi risultati nonostante dispongano di fondi e risorse minori rispetto a paesi simili. Quello che ancora è carente è la struttura a supporto di queste imprese: incubatori e fondi d’investimento seed sono ancora troppo pochi, a mio avviso, così come fondi Venture con capacità d’investimento significative, in grado di andare sopra i 10 milioni di euro d’investimento per ogni investimento target”.

Diana Saraceni – Co-founder e general Manager di Panakes Partners. Diana ha contribuito a fondare (e vi ha lavorato per oltre 10 anni) 360 Capital Partners. In precedenza, ha forgiato la sua esperienza lavorativa in grandi banche d’investimento e M&A.

Nicola Redi – Vertis

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“Il venture capital italiano è molto recente e non ha ancora potuto provare la sua capacità di generare valore. Pertanto gli investitori istituzionali (quali fondi pensione, assicurazioni) non lo considerano fra gli impieghi più interessanti dei loro capitali. D’altra parte, per provare la generazione di valore, occorre un tessuto industriale disponibile ad effettuare acquisizioni ripagando così l’investimento dei fondi: salvo casi rarissimi, le imprese italiane hanno una limitata propensione ad investire in acquisizioni di startup ad alto contenuto di innovazione. Quando lo fanno, poi, le loro offerte sono frequentemente con valori di un ordine di grandezza inferiore rispetto a quelli di imprese straniere. La mancanza di un tessuto industriale disponibile ad investire per innovare provoca da un lato che i fondi italiani guardino all’estero per i loro disinvestimenti (una sorta di “fuga delle startup”), dall’altro limita la capacità delle startup di svilupparsi sotto il profilo industriale. Nel resto del mondo, circa un terzo degli investimenti di venture capital viene proprio dai gruppi industriali (i cosiddetti corporate venture capital) che affiancano i venture capital indipendenti e offrono opportunità di sinergie industriali con le startup. Inoltre molti gruppi industriali sono fra i sottoscrittori principali di fondi indipendenti, ciascuno nel proprio settore, in quanto questo rappresenta per loro un’opportunità di individuare nuove tecnologie e potenzialmente acquisirle. Trasformano di fatto i costi di scouting tecnologico in un investimento. In Italia vedo eccellente ricerca e ottime opportunità di investimento: la maggiore partecipazione delle industrie in questo processo darebbe ulteriore impulso alla creazione di valore per i fondi, al rafforzamento del tessuto imprenditoriale italiano e attrarrebbe ulteriori capitali da parte degli investitori istituzionali”.

Nicola Redi – È Investment Director Venture Capital presso Vertis Sgr. È stato Chief Investment e Technology Officer in TTVenture. Precedentemente ha lavorato per Pneumatici Pirelli e American Standard come capo della Project Management Office globale della R&S.

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