Imprenditoria

Quando la scienza si fa impresa: la crescita degli spin-off

Le exit di Vislab e Vivabiocell hanno riportato l’attenzione sulle aziende gemmate da università ed enti di ricerca. Il rapporto Netval ne ha censite 1.144. La creazione di questo tipo di società è in aumento: l’80,1% è stato costituito negli ultimi 10 anni. Ma i finanziamenti scarseggiano

Pubblicato il 05 Ago 2015

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Sono state le aziende protagoniste del luglio caldo dell’innovazione italiana. A distanza di pochi giorni Vislab, startup di Parma che ha sviluppato un’automobile a guida automatizzata, è stata venduta all’americana Ambarella per 30 milioni di dollari e Vivabiocell, società biotech di Udine attivo nel campo delle cellule staminali adulte, è passata in mano alla statunitense NantCell per una cifra che potrebbe essere vicina ai 60 milioni di dollari.

Di più. Veasyt, nuova impresa innovativa di Venezia che fornisce servizi digitali nell’ambito dell’accessibilità linguistica e sensoriale, ha vinto la competizione Unicredit Start Lab nel settore digital. Karalit (società sarda attiva nel settore del software per la simulazione e modellizzazione ingegneristica), Amolab (azienda leccese specializzata nella produzione di apparecchi medicali) e DataRiver (impresa modenese che sviluppa progetti nel campo dell’integrazione dati) sono entrate nella lista delle Pmi innovative. Ognuna di queste società ha in comune un elemento: sono tutti spin-off della ricerca pubblica, ovvero imprese gemmate dalle università o da altri enti pubblici di ricerca in Italia.

Netval, la rete per la valorizzazione della ricerca universitaria, definisce lo spin-off come «impresa operante in settori high-tech costituita da (almeno) un professore/ricercatore universitario o da un dottorando/contrattista/studente che abbia effettuato attività di ricerca pluriennale su un tema specifico, oggetto di creazione dell’impresa stessa».

Stando al rapporto annuale di Netval, al 31 dicembre 2014 in Italia risultavano attivi 1.144 spin-off. Il fenomeno delle imprese nate all’interno degli atenei è in costante incremento, dal momento che l’80,1% di queste società è stato costituito – rileva l’indagine – nel corso degli ultimi dieci anni. Per esempio, solo nel 2013 ne sono nati 110, pari al 9,6% di tutti gli spin-off sul territorio nazionale.

Il tasso di sopravvivenza di queste aziende si aggira sui sei anni. In termini geografici, la maggior parte delle imprese spin-off, il 50,3%, è concentrata al Nord. Quelle localizzate al Centro sono il 28,4% del totale. Mentre Sud e Isole ospitano il rimanente 23,8%: il gap tra Mezzogiorno e resto d’Italia è innegabile ma si dimostra “in leggero riequilibrio rispetto agli anni precedenti”.

La regione in cui sono presenti più spin-off è la Toscana, con l’11,4% del totale. Seguono la Lombardia con il 10,8%, il Piemonte con il 9,6%, l’Emilia-Romagna con il 9,4% e la Puglia, unica regione del Sud tra le prime cinque, con l’8,1%.

Se si guarda alle singole università con la più alta percentuale di spin-off prodotti, la palma va al Politecnico di Torino, che ha dato vita a 66 imprese, il 5,8% sul totale italiano. Al secondo posto c’è l’Università di Padova, con 45 (3,9%). A ruota, l’Università di Genova (3,3%), l’Università di Pisa (3,2%) e, a pari merito, l’Università del Salento e il Politecnico di Milano (3,1%).

Quanto al settore di attività, si tratta soprattutto di imprese attive in campo Ict. Operano in questo ambito il 25,8% degli spin-off. Negli ultimi anni hanno fatto registrare un importante incremento le aziende che rientrano nella macro-categoria dei servizi per l’innovazione (19,7% sul totale) e quelle che si occupano di energia e ambiente (16%) e di life sciences (15,6%). Ben rappresentati anche comparti come biomedicale (7,6%), elettronica (6%) e automazione industriale (3,5%). Meno rilevante è la percentuale di imprese attive nei settori nanotech (2,8%), conservazione dei beni culturali (2%) e aerospazio (1%).

Sebbene il numero degli spin-off cresca, secondo il rapporto Netval «si tratta per la maggior parte di aziende di piccole-medie dimensioni», in cui mediamente ci sono 10 addetti. Quanto alla composizione societaria – si legge nella rilevazione – «sono ancora troppo poche, sebbene in netta crescita, quelle nel cui capitale sociale è presente un partner finanziario e/o industriale e che sono chiaramente orientate a un percorso di crescita e di espansione sui mercati internazionali». Insomma, troppe figure accademiche – ricercatori e docenti – e troppo pochi profili con esperienza in ambito aziendale.

Tuttavia, oltre ai casi finiti sotto i riflettori negli ultimi mesi, di spin-off italiani che si sono segnalati per capacità di innovare e di attrarre l’interesse di investitori e di partner industriali ce ne sono.

Nel privato, basta pensare, per esempio, a Genenta Science, spin-off dell’Università San Raffaele che opera nel campo della terapia genica per la cura dei tumori, ha ricevuto quest’anno finanziamenti per 10 milioni di euro: è la startup più finanziata d’Italia. Fabtotum, spin-off del Politecnico di Milano che ha progettato una stampante 3D che è anche in grado di fare scansioni digitali, ha ottenuto diverse risorse tra cui circa 600 mila euro con una campagna di crowdfunding su Indiegogo, il record europeo su quel portale.

Allo stesso tempo però ci sono imprese che al netto dei riconoscimenti pubblici non riescono a ottenere dai venture capital i fondi necessari per crescere. Come Epinova Biotech, spin-off dell’Università del Piemonte Orientale che sviluppa idrogeli bioattivi per la cura di ulcere e ustioni, vincitrice del Premio Marzotto 2013.

I fondatori della startup a ottobre 2014 dicevano: negli Usa ci corteggiano, se entro sei mesi non troviamo un finanziamento privato consistente, saremo costretti a emigrare negli Stati Uniti. Senza denaro a disposizione, potrebbe non essere l’unica a lanciare questo grido d’allarme.

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