L’analisi

Crisi automotive 2024, che cosa c’è all’origine? Il Dieselgate e un ritardo di innovazione



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Come si è arrivati alla crisi dell’automotive nel 2024? Le radici sono lontane. Nel 2015 scoppia lo scandalo del diesel, quando già da almeno cinque anni la Cina investe pesantemente sull’auto elettrica. L’Europa ora è in ritardo. E manca ancora una politica industriale per il settore

Pubblicato il 2 ott 2024

Ferdinando Pennarola

Professore di Organizzazione e Sistemi Informativi Università Bocconi



Crisi automotive 2024

Crisi automotive 2024, un anno indimenticabile. In apertura dei mercati, lunedì 30 settembre, Stellantis lancia il suo primo profit warning per l’anno corrente, prevedendo che i numeri a fine 2024 saranno ben più magri di quelli annunciati nella precedente call con gli analisti, a causa del drastico rallentamento delle vendite in nord America e della situazione depressiva del mercato in Europa.

La perdita del titolo in borsa si assesta intorno ad un drammatico -15%, il più grave tonfo dal momento della costituzione del gruppo internazionale nato dalla fusione di FCA e di Peugeot. Purtroppo, è un episodio che si aggiunge ad altri simili, il caso Volkswagen è su tutte le pagine dei quotidiani, a riprova di uno sconvolgimento che sta interessando l’intero settore.

Crisi automotive 2024, le radici lontane

Vediamo di ordinare le idee per capire la portata del fenomeno, quali sono le sue radici lontane, e quali scenari ci possiamo aspettare nel prossimo futuro. Per comodità di ragionamento, ci limitiamo al perimetro dei produttori Europei e Nord-Americani, visto che per quelli Cinesi sarebbe necessario un capitolo a parte.

Innanzitutto, la portata del fenomeno, è triste dirlo, non dovrebbe sorprendere. Il settore automotive risente sempre in misura maggiore, rispetto all’aggregato di tutto il manifatturiero, dei momenti di crisi, sprofondando di diversi punti percentuali che fanno venire i brividi ad azionisti, occupati, dealer e fornitori vari.

Lo avevamo descritto bene in occasioni passate qui su EconomyUp e oramai le prove sono inconfutabili sul fatto che si tratti di un fenomeno proprio del settore automotive, indipendentemente dall’area geografica di origine, e/o di produzione, degli OEM e dei loro partner.

Le radici del problema sono note e si manifestano ciclicamente, e risiedono negli elevatissimi costi di sviluppo del prodotto e di un time-to-market poco performante, in genere per tutto il settore, fatto salvo alcuni casi eclatanti in Cina.

Crisi automotive 2024, andiamo oltre la punta dell’iceberg

La punta dell’iceberg della crisi automotive 2024 è quella che vediamo oggi sui media tutti i giorni: maxi-rallentamento delle vendite, mancanza di prodotto nuovo, scarsa offerta dei BEV se non a prezzi molto cari, minaccia di invasione dei BEV cinesi in Europa, incertezza sulla transizione dell’intera gamma di prodotto verso la propulsione solo elettrica così come sostanzialmente richiesto dalla UE entro il 2035.

Come scritto in più occasioni, l’automotive è assetato di capitali e quindi la struttura dei costi fissi risente in modo significativo dei rallentamenti, e delle accelerazioni, dei cicli dell’economia. Non bisogna dimenticare che l’automobile rimane un prodotto dannatamente complesso, risultato dell’assemblaggio di componenti che vengono da centinaia di produttori specializzati, in una catena di fornitura che ha bisogno di tempi lunghi per partire, per accelerare e, a causa delle sue inerzie, tempi lunghi per rallentare.

La risposta alla crisi: sconti o stop alle fabbriche?

Lo abbiamo visto con la pandemia: lo stop di produzione in Asia di circuiti integrati per l’automotive ha frenato un intero settore che in molti casi ha dovuto mettere in cassa integrazione il personale causa il fermo delle fabbriche per la mancanza dei componenti. La gestione di questo “elastico” è l’incubo ampiamente noto ai manager dell’automotive: è un vero e proprio tormento perché pone i manager di fronte a dilemmi di gestione del business che hanno pesanti ripercussioni politiche ed etico-sociali.

Se, ad esempio, la domanda dai concessionari rallenta e non arrivano sufficienti ordini dal mercato, i manager del settore hanno due strategie possibili. Con la prima, si cerca di sopperire alla mancanza di ordini dal mercato con l’aumento degli “ordini centrali”: sono quelle configurazioni di vetture pronte per la commercializzazione che non hanno ancora un cliente.

Questa strategia da un lato protegge le fabbriche e la catena di fornitura, che lavorano, magari con qualche piccolo stop, assemblano e consegnano il prodotto. Dall’altro lato, gli “ordini centrali”, ingolfano i piazzali e sono la disgrazia principale per i concessionari che si devono caricare di prodotto invenduto che prima o poi farà una brutta fine: piazzato sul mercato offrendo forti sconti.

Gli sconti sono una pericolosa droga (si pensi, ad esempio, alle vetture già immatricolate e commercializzate come km 0) perché sottraggono valore al prodotto, quindi marginalità per l’OEM e per il rivenditore, e sono difficili da eliminare perché la domanda futura, se ancora debole, visiterà il salone solo se lo sconto viene confermato.

Con la seconda strategia si opta per un drastico stop alle fabbriche, il personale va a casa (licenziamenti e/o cassa integrazione), si attendono tempi migliori per ripartire oppure, più drammatico ancora, si sceglie di eseguire un importante taglio, riducendo la capacità produttiva esistente e futura. In questa seconda opzione, che sembra essere quella scelta dal gruppo Volkswagen, sono immediate le ricadute politiche e sociali che devasteranno il clima tra tutte le parti in causa: OEM, sindacati dei lavoratori, autorità pubbliche locali e nazionali.

Tuttavia, in questo caso i rivenditori sono salvi, (si fa per dire…) perché non devono superare le oggettive difficoltà per vendere un prodotto pre-configurato (gli “ordini centrali”), non vedranno deteriorarsi i margini commerciali, ma ovviamente rimarranno all’asciutto in attesa di tempi migliori. Per ragioni contingenti alla crisi sanitaria, questo secondo scenario è quello che è esattamente accaduto, provocando un allungamento dei tempi di consegna dei veicoli nuovi (mancavano i componenti), innalzamento dei valori dell’usato, fabbriche ferme o quasi, prosciugamento di tutte le politiche di sconto e profitti alle stelle per gli OEM. Quindi il Covid e il post-Covid sono stati anni ottimi per i profitti di Stellantis e degli altri produttori.

Crisi automotive 2024, l’onda lunga del Dieselgate del 2015

Ma come in una tempesta perfetta, a questi problemi, nella crisi automotive 2024, se ne sono sovrapposti altri che hanno aggravato la situazione e amplificato gli effetti negativi sulle trimestrali. Investighiamo sulle radici meno cicliche, che traggono spunto da fatti e decisioni lontane.

Molte opinioni pubblicate in questi anni concordano che tutto ebbe inizio con il Dieselgate del 2015 che costò alla Volkswagen 33 mld di dollari in sanzioni, cause legali, riacquisto di auto incriminate. Il Dieselgate scoppiò nel momento dell’apoteosi del motore diesel che, grazie al common rail, era diventato un sistema di propulsione civilizzato, poco rumoroso, performante, parco nei consumi.

Ricordiamo che secondo i dati ACEA, le vetture equipaggiate con motori a ciclo diesel raggiunsero una penetrazione del 56-57% del nuovo venduto in anni come il 2012 o il 2014. Quando si finisce sul podio, si attirano le attenzioni e le invidie di tutti. La componente dolosa dello scandalo, che consisteva nella manipolazione dei software di controllo delle emissioni per funzionare in modo benevolo in fase di omologazione delle auto diesel, possiamo dire che aggiunse… gasolio all’incendio, e tutto di un tratto fece perdere quella buona reputazione che il propulsore diesel si era conquistata.

Le conseguenze immediate furono per il gruppo Wolkswagen, ma anche altri produttori non ne uscirono indenni (FCA, Bmw, Audi). Alcune multe del Dieselgate furono comminate nel 2021, arresti di dirigenti di alto profilo (Audi) furono eseguiti nel 2018, la chiusura di alcune vicende processuali è datata al 2023. Il Dieselgate si è trascinato per un lustro importante, tenendo tutti sotto scacco.

Il Green Deal e l’obiettivo emissioni zero entro il 2035

Nel frattempo, la Commissione Europea avanzava nel 2019 le prime proposte del piano cosiddetto “Green Deal” che il Parlamento Europeo, nel 20 gennaio 2020, supportò favorevolmente, con la richiesta alla Commissione di avere obiettivi ancora più ambiziosi. E arriviamo in fine al famoso Fit-For-55, che in varie fasi viene discusso e presentato: una data cruciale fu quella del 14 luglio 2021, in cui il progetto prese forma in via definitiva, articolandosi in dodici direttive e regolamenti. Una di queste è la tanto contestata “norme sulle emissioni di CO2 per autovetture e furgoni” che stabilisce la misura drastica di riduzione del 100% delle emissioni allo scappamento entro il 2035. In pratica, si celebrò la fine del motore a combustione interna e la richiesta a tutti i produttori di vendere veicoli solamente full electric, a partire dal 2035.

Perché la UE si è fermata solo alle emissioni?

Numerosi osservatori si sono domandati come mai la UE scelse obiettivi ambiziosi, pur se legittimi, misurando la riduzione della CO2 delle sole emissioni, senza tenere in considerazione l’intero ciclo di vita della vettura, e senza considerare nemmeno le implicazioni industriali sulle catene del valore, visto che per i BEV si aggrava la dipendenza dai fornitori di batterie.

È opinione diffusa che quella misura fu il risultato di un compromesso politico, che permetteva di non aprire una questione estremamente complicata quale quella delle misure di CO2 su un intero ciclo di vita di un prodotto (qualsiasi), che al tempo stesso avrebbe tenuto a bada le critiche di approccio eccessivamente conservativo della UE, e sgombrato il campo dalle illazioni di difesa di produttori incriminati nel recente scandalo del Dieselgate. Al tempo stesso non avrebbe allontanato l’Europa dalla politica del passato, più o meno in sintonia con quanto fatto dalle autorità competenti in USA, ovvero tre decenni di disposizioni antinquinamento (l’Euro 1 risale al 1992) basate su misure delle emissioni di gas.

Auto elettrica, gli investimenti della Cina e il ritardo dell’Europa

Mentre il Dieselgate dispiegava i suoi effetti, la Commissione UE studiava compromessi su come aggregare più consenso sul Green Deal, la Cina non rimaneva affatto ferma a guardare, ma anzi, dal lontano 2010, quindi ben prima del Dieselgate, dispiegava un massiccio piano per la transizione alla mobilità elettrica con incentivi all’acquisto e potenti sussidi al sistema industriale.

Una delle questioni più controverse rimarrà quella del calcolo effettivo di quante risorse negli anni sono state profuse in questo piano: è sicuro che, se mai un giorno un computo preciso verrà fatto, si parlerà sicuramente di centinaia di miliardi di dollari complessivi. Solo gli incentivi all’acquisto sono stati nell’ordine dei 2,5 Mld di dollari all’anno, dato medio annuale su un arco temporale di 12 anni.

I produttori cinesi si organizzano, mettono a punto tutti i dettagli della catena di fornitura dei BEV (materie prime, batterie, motori elettrici, software, etc), fanno incetta di risorse nei mercati mondiali e con successo, crescente, di pubblico e di critica, presentano i loro prodotti in occasione dell’Auto China, il salone biennale dell’auto a Pechino organizzato dalla Beijing International Automotive Exhibition a partire dal 1990. Pare che nell’ultima edizione, di aprile 2024, gli stand dei produttori occidentali siano stati snobbati dal pubblico che si è invece accalcato in quelli dei produttori locali.

Per semplificare una storia lunga, noi in Europa e in USA, fatto eccezione per il caso Tesla, ci siamo mossi in grave ritardo, e dopo aver venduto i pochi mezzi elettrici, al netto delle importazioni di Tesla, agli early adopter ci troviamo di fronte una montagna da scalare: come fare in fretta per proporre nuovi prodotti nei segmenti B, C e D, prima che arrivi l’export di veicoli Made in China ad occupare tutti gli spazi competitivi.

Crisi automotive 2024, che fare adesso?

Che fare di fronte alla crisi automotive 2024? Quali sono i possibili scenari per uscire da questo impasse? È opportuno rivedere il vincolo del 2035? Quali sono gli effetti sui produttori? Esaminiamo le questioni principali.

La manovra tattica: allentare i vincoli sull’azzeramento delle emissioni

Allentare i vincoli dell’azzeramento della CO2 alle emissioni entro il 2035, potrebbe essere una manovra tattica per dare un po’ di respiro ai produttori europei, ma avrebbe soprattutto un effetto benefico sul fronte delle resistenze dei consumatori.

Ricordiamo che, complice la pandemia, sono più di 5 anni che il parco circolante subisce un invecchiamento aggiuntivo, raggiungendo una media di 12,3 anni in UE e in Italia. Questa non è una buona notizia: chi ha comprato un veicolo termico nel 2020 si aspetta che nel 2032 vi siano condizioni migliori per passare ad un BEV, sia in termini di costi di acquisto che di servizi di ricarica, e sullo sviluppo delle infrastrutture nel nostro Paese non abbiamo esempi eccellenti (si veda il caso dei ritardi accumulati per l’installazione delle linee di telecomunicazioni a fibra ottica ad opera di Open Fiber e operatori concorrenti).

Il problema dei produttori: avere un prodotto valido in tempi brevi

Una rimodulazione della scadenza del 2035 non avrebbe, invece, impatti significativamente migliorativi per la condizione degli OEM, i quali hanno già fatto programmi a lungo termine per il rimpiazzo delle vecchie catene di fornitura legate ai veicoli termici, con le nuove specifiche per i BEV, e da questi piani non possono tornare indietro.

Il problema per gli OEM sarà quello di avere un prodotto valido in tempi brevi in cui i costi di acquisizione dei clienti (prevalentemente, costi commerciali) siano ragionevoli, anche perché la sfida prossima sarà quella di convincere i consumatori della prima maggioranza, notoriamente un osso più duro rispetto all’entusiasmo dei primi early adopter. Per gli OEM, questa situazione in cui devono convivere per lo stesso prodotto molteplici forme di propulsione (benzina, diesel, termico full hybrid o mild hybrid, BEV), rappresenta lo scenario peggiore, di elevata complessità gestionale con costi nettamente superiori ad uno scenario solo BEV o solo termico.

È questo il momento giusto per ulteriori aggregazioni nel settore?

In questi giorni è tornata insistentemente l’ipotesi di una fusione Stellantis con Renault, peccato che chi la propone sottovaluti il problema della Francia. I due giganti hanno oltre 20 stabilimenti in territorio francese ed è poco probabile che si vogliano cercare sinergie ora, che in un linguaggio più popolare significano tagli e dismissioni. Quelle attuali, non sono condizioni comparabili con quelle in cui si favoleggiava di una preferenza di Sergio Marchionne per una fusione FCA + Renault. Stellantis non è solo FCA.

Automotive 2024, 7 domande per una buona politica industriale

A chi spettano i compiti a casa? Non vi sono dubbi: sono gli interlocutori pubblici che devono agire, annunciando una vera politica industriale europea per il settore automotive e non limitandosi a porre asticelle da superare, nella speranza che il mercato sia in grado di adeguarsi da solo.

C’è una montagna di lavoro da smarcare, di cui nessuno parla:

  • Quale sarà la nuova fiscalità sul bene “automobile” in un mondo sempre più BEV
  • Come verranno rimpiazzate le entrate fiscali dai carburanti fossili che verrebbero, a condizioni invariate, perse in una ipotesi di massiccia transizione ai BEV?
  • Saranno gli incentivi all’acquisto sostenibili per lungo termine?
  • Possiamo in EU replicare gli oltre 2,5 Mld di incentivi all’anno, come hanno fatto in Cina, per dieci anni?
  • Chi pagherà questo enorme sussidio?
  • O come verrà finanziato?
  • E se non ce li potessimo permettere, a quali condizioni verrebbero adeguate le reti elettriche per ospitare più punti di ricarica in città e presso i domicili privati?

    Come al solito, una buona politica industriale deve dare chiarezza di lungo periodo sia alla domanda che all’offerta: queste sono le condizioni di base per contenere l’incertezza del futuro e aiutare uno sviluppo armonico di tutte le parti in causa verso un mondo più sostenibile.

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