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Venture capital o private equity? La questione che pone il round di 35 milioni di LimoLane



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“Tecnicamente io considero questo aumento di capitale un’operazione di private equity”, dice Fabio Nalucci, imprenditore seriale, investitore e chairman di LimoLane, che è una startup. Dipende dal modello di crescita dell’impresa, dagli investitori e dalla debolezza del venture capital in Italia. Che finora ha deluso

Pubblicato il 17 lug 2024



Private Equity

Chissà come verrà contabilizzato nei bilanci di fine anno l’investimento di 35 milioni di euro su LimoLane. Molto probabilmente entrerà nel paniere del venture capital, visto che la società è nata a fine 2021 ed è quindi, a tutti gli effetti una startup. Ma, sappiatelo in anticipo, il founder non sarà d’accordo.

“Tecnicamente io considero questo aumento di capitale un’operazione di private equity“, sostiene Fabio Nalucci, imprenditore seriale, investitore e chairman di LimoLane. La posizione è interessante in un ecosistema in cui i termini si confondono, le comunicazioni sono troppo spesso approssimative e gli unicorni nascono settimini.

Venture capital o private equity? Il caso LimoLane

Facciamoci, allora, spiegare da Nalucci perché il suo non è un round di venture capital. Ragionare e confrontarsi è sempre il primo metodo per far crescere le persone, le organizzazioni e gli ecosistemi.

“Il venture capital dovrebbe essere caratterizzato da operazione che mirano a sostenere crescite dirompenti, investimenti fatti per prendere nuovi mercati e clienti. A distinguere questa categoria di investimenti c’è una certa aggressività e la scommessa su società con Ebidta negativo”, dice Nalucci, che ricorda come Amazon sia, per quando riguarda l’ecommerce, ancora in perdita.

Quindi, il venture capital è una tipologia di investimento che punta all’iper growth, bruciando cassa. Un approccio contrario a qualsiasi principio di buona gestione aziendale.

La logica del private equity

Il private equityl, invece, “lavora su aziende che hanno buoni tassi di crescita, ma non certo dirompenti, ed ebitda già positivi. E poi crescono facendo buy and build”.

Perché allora l’operazione su LimoLane è private equity? “Perché il nostro piano è prendere capitale per comprare aziende. La società ha avuto finora una buona crescita organica e non ha mai perso un soldo, sempre profitable da quando è nata. A fine estate finalizzeremo un’acquisizione, chiuderemo l’anno a circa 34 milioni di fatturato e con un ebitda ancora più alto. Questo è un tipico piano da private equity”-

Chi ha investito su LimoLane? Un fondo di private equity

Chi ha investito su LimoLane? Cherry Bay Capital, che non può definirsi un fondo di venture capital. SI legge nel suo sito: “Cherry Bay Capital Private Investment Office ha promosso Cherry Bay Capital Investment Club insieme a primarie famiglie industriali unite nella visione comune di connettere capitali di famiglia ed imprese di famiglia italiane caratterizzate da un posizionamento differenziante e guidate da imprenditori e/o manager in grado di esprimere “eccellenza” a livello internazionale. Cherry Bay Capital Investment Club introduce un nuovo paradigma in ambito Private Equity attraverso la struttura innovativo del “pledge fund” in grado di coniugare i benefici del club deal e quelli di un processo d’investimento strutturato”. Quindi una sorta di fondo comune di investimento a cui partecipano High Net Worth Individuals italiani. organizza deal club con family office di molte importanti famiglie italiane.

“Ho pensato a loro non solo perché li conosco”, spiega Nalucci. “Volevo capitali di imprenditori che vogliono e possono accompagnarci nella crescita, perché le loro imprese usano LimoLane, ci danno referenze per nuovi clienti”. E poi con FundX, creato da Nalucci, è stato creato un veicolo dedicato a nuovi investitori e al follow on di chi era già dentro dal 2023.

Il venture capital in Italia ha deluso

Il punto non è da poco. Se è vero che LimoLane è una startup ma il round da 35 milioni è un’operazione di private equity, allora misurare gli investimenti di venture capital, soprattutto in Italia, non è un buon indicatore sullo stato di capienza finanziaria delle startup. Ci sono altre fonti di capitale e si stanno affermando altri modelli di investimento che forse sono più in linea con la natura delle startup italiane, tendenzialmente poco portare alla crescita dirompente ma molto spesso nocciolo di medie imprese di qualità innovativa e tecnologica.

La recente rilevazione del VeM, il Venture Capital Monitor di AIFI con LIUC, dice che nel primo semestre 2024 c’è stata una crescita degli investimenti sulle startup di circa il 18%. Ma siamo fermi a 600 milioni e, se si vanno a disaggregare i dati (togliamo gil investimenti di aziende, business angel, fondi istituzionali e internazionali) il gioco degli operatori italiani è di qualche centinaio di milioni.

Il venture capital italiano finora ha deluso. “Comincia a circolare qualche dato su alcuni fondi in chiusura e i risultati non sono certo brillanti, quindi family office e altri detentori di risorse finanziarie non guardano con interesse a questa asset class”, è l’analisi di Nalucci, che ha in portafoglio un centinaio di investimenti e si sente di dichiarare senza tema di smentita: “È vero, gli investitori italiani sono avversi al rischio ma le startup fanno fatica perché sono schiatte clamorose. Poi ci sono i founder bravi ma non riescono a sviluppare il loro percorso perché il mercato finanziario è stitico. Negli Stati Uniti, invece, anche se non sei un fenomeno ce la puoi fare”.

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