Che cosa sarebbe accaduto se la pandemia fosse scoppiata nel 2001? Oppure, ancora peggio, nel 1981? Senza Internet, senza l’ecommerce, senza la rete digitale che ormai ci avvolge? Di fronte alla quarta ondata del coronavirus mutato le domande pulsano in testa. Come avremmo potuto reggere senza la possibilità di fare scuola a distanza? Di continuare a lavorare seppur davanti a un monitor? Di ordinare la spesa online? Di vedere i nostri cari attraverso uno schermo?
È stato comunque un dramma ma sarebbe stato molto peggio senza il lavoro di tante imprese che hanno visto il futuro prima di altre, hanno investito sulla tecnologia ma hanno soprattutto saputo immaginare modi nuovi per fare cose vecchie, che è poi l’essenza dell’innovazione. Molte sono startup, avvantaggiate dalla loro agilità e dalla dimestichezza con la tecnologia e le sue applicazioni.
Durante l’emergenza, a più di un italiano su due le tecnologie digitali hanno consentito di provvedere alle proprie necessità (58,6%), di mantenere le relazioni sociali (55,3%) e di continuare a lavorare o studiare (55,2%), ci ricorda il 55° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti: la dimensione digitale ha mostrato tutta la sua potenza e, come dice da tempo il filosofo Luciano Floridi, la sua inevitabile legame con la dimensione fisica. Siamo sempre gli stessi ma possiamo fare cose, ottenere servizi, avere accesso a relazioni prima impossibili o in modalità prima impensabili. Difficilmente si potrà tornare allo stato ante Covid.
Il digital vortex è entrato nelle nostre vite. Adesso aziende e pubbliche amministrazioni devono adeguarsi. Lo stanno facendo, non sempre è facile ma è ormai necessario, inevitabile. Un modo per farlo più rapidamente è scoprire le soluzioni delle startup, sostenerle, farle proprie, lavorare con imprenditori che hanno deciso di affrontare un rischio e lavorano per farlo diventare un valore. La tendenza è forte: l’81% delle grandi aziende fa open innovation e la metà collabora con le startup, ci dice la ricerca annuale degli Osservatori Startup Intelligence e Digital Trasformation Academy della School of Management del Politecnico di Milano.
Sono sempre di più quindi le aziende quelle che hanno individuato nelle startup un interlocutore privilegiato per accelerare l’innovazione, che poi vuol dire crescita e sviluppo: si cercano idee, soluzioni, prodotti, competenze, modelli di business in grado di potenziare la tradizione e l’esperienza dell’azienda, la sua presenza sul mercato, la relazione con i clienti. Lo fa persino l’INPS e adesso anche Banca d’Italia, perché l’innovazione aperta può rappresentare la soluzione di un grande freno allo sviluppo.
Lasciamolo spiegare a chi ha teorizzato ormai oltre 20 anni fa l’open innovation. Henry Chesbrough, professore a Berkley, nel suo libro più recente (“Il futuro della open innovation, pubblicato in Italia dalla LUISS, dove ha una cattedra) scrive che l’open innovation serve a risolvere il paradosso davanti al quale si trovano le aziende e i Paesi ad economia avanzata: il progresso tecnologico sta accelerando, mentre la crescita della produttività economica è in calo. Conoscere e incontrarsi con le startup, accettarne gli stimoli, persino le provocazione è un modo senza dubbio concreto per risolvere questo paradosso e dare nuova spinta a un’azienda ma anche a un intero sistema economico e quindi a un Paese.
Nelle assicurazioni la risoluzione del paradosso si chiama insurtech e lo dimostra la crescita degli investimenti a livello globale. La tecnologia serve a migliorare i processi e ottimizzare i margini ma anche ad accrescere la dimensione della copertura, a portare più protezione a chi ancora non ce l’ha o non può permettersela. L’insurtech permette alle assicurazioni di essere, quindi, più inclusive, come ci ha ricordato il tema di
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che cosa fanno le tre startup premiate: mostrano come sia possibile portare utilità, semplicità e velocità in un’industria antica come quella assicurativa. Ne avranno vantaggio le compagnie ma anche la società tutta.