LA STORIA

“Come diventare la startup italiana più premiata? Andando all’estero”

Il Ceo di Atooma racconta il successo della piattaforma di Internet of Things: “Mettersi in competizione e lavorare in Usa: lì i Ceo miliardari vanno ai meeting in felpa e sneakers”. E sull’Italia: “Tanti talenti, un buon posto per cominciare ma non per crescere”

Pubblicato il 15 Lug 2014

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La premiazione di Atooma all'evento di Deutsche Telekom (al centro Luca Barboni, marketing manager)

Non credo che Atooma sia un’eccezione nel panorama italiano e nemmeno che il nostro team sia migliore di altri. Semplicemente ci abbiamo creduto e ci crediamo. In Italia c’è un elevatissimo numero di persone geniali, ho conosciuto menti fantastiche, specialmente nel mio percorso legato al mondo dell’ingegneria. Il problema di noi italiani è che pensiamo in piccolo, ci sentiamo sempre in difetto e abbiamo uno scenario politico-economico che ci scoraggia ancora di più”. A dirlo è Fabrizio Cialdea, Ceo della startup nata nel 2011 come fornitrice di un’applicazione per automatizzare gli ordini da impartire allo smartphone e poi evolutasi in una vera e propria piattaforma orientata all’Internet of Things, offrendo ai produttori la possibilità di integrare questa tecnologia nei loro dispositivi per renderli ancora più smart. Atooma, composta da un team giovane e agguerrito del quale fanno parte Francesca Romano, ex Ceo e oggi Cxo (Chef Experience Officer), Gioia Pistola, Cmo e co-founder, Andrea Meriggioli, Andrea Petreri, Andrea Stagi e Lorenzo Braghetto, è probabilmente la startup italiana più premiata nel mondo. Riconoscimenti sono arrivati dal Premio Techcrunch Europe, dal Mobile World Congress di Barcellona e ultimamente da Deutsche Telekom, solo per citare qualche nome. Il suo segreto? “Bisogna costantemente mettersi in competizione e bisogna farlo specialmente all’estero” spiega Cialdea.

Non è proprio possibile essere startup di successo e restare in Italia?
Ad oggi l’Italia è un buon posto dove partire, con un po’ di impegno si riescono a trovare i primi fondi e ci sono ottime risorse umane ad un prezzo ridicolo in confronto al resto d’Europa o della stessa America. Non è però assolutamente il posto dove poter pensare poi di scalare il proprio business. Non ci sono investitori e fondi pronti ad investire capitali più consistenti e soprattutto non ci sono aziende grandi e virtuose in grado di generare scenari di exit per le startup.

È per questo che Atooma a gennaio 2013 ha aperto una subsidiary in California e ora fa la spola tra Italia e Usa?
Certo. A mio parere l’unico modo per uscire da questo clima che soffoca le scaleup è provare a spendere del tempo fuori, possibilmente negli Stati Uniti. La cosa straordinaria che sta dietro il modo di fare business degli americani è proprio questo, crederci. Ci credono così tanto che riescono a venderti qualcosa di cui non hai assolutamente bisogno o semplicemente creano un bisogno piuttosto di venderti qualcosa. Può sembrare la solita retorica, invece è realtà. Gli statunitensi hanno una mentalità totalmente open che non fa assolutamente un problema dell’età, dell’etnia o del sesso. La maggior parte dei meeting che ho portato avanti in Usa con Ceo di società miliardarie li ho affrontati in felpa e scarpe da ginnastica. Mi sono sentito sempre a mio agio e libero di esprimere le mie potenzialità al massimo, fuori dai soliti vecchi schemi.

Quanto siamo indietro nel nostro Paese rispetto agli Usa?
Molto, ma i giovani hanno un potenziale enorme. Per esempio programmi come InnovactionLab (corso di formazione per giovani startupper a cui ha preso parte Atooma alla sua nascita a Roma, ndr) sono la rappresentazione di quanta voglia di emergere c’è tra i giovani italiani. Serve semplicemente una miccia capace di spronare i ragazzi nelle università e vi assicuro che i risultati possono essere dirompenti.

Come si può costruire l’ecosistema giusto per coltivare i nostri talenti?
C’è bisogno di tanto lavoro a livello legislativo per favorire investimenti da fondi esteri e soprattutto per attrarre big player quali Google, convincendoli ad aprire spin-off dell’innovation qui in Italia. Replicare la Silicon Valley è impossibile, abbiamo ormai un divario troppo ampio e l’evoluzione del mercato su questo non ammette errori, abbiamo già perso troppo tempo. Potremmo però creare un buon ecosistema se legati al resto dell’Europa, lavorando bene da qui ai prossimi dieci anni insieme al resto degli Stati membri dell’Unione.

In questo contesto quale ruolo può giocare lo sviluppo dell’equity crowdfunding per sostenere le giovani imprese?
È assolutamente utile, però ritengo che dipenda dai progetti. Per chi si focalizza a costruire “oggetti”, e quindi dispositivi hardware di facile realizzazione e soprattutto facile comunicazione, è probabilmente uno dei metodi migliori per partire senza perdere troppa equity e testare in parallelo il reale interesse di un pubblico vero.

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