INNOVATION DETECTIVE

Il Dottore e l’acceleratore che è diventato un pub

Un imprenditore voleva aprire un acceleratore per startup food tech, ma l’indagine svela che qualcosa non quadra nell’ecosistema, dove c’è però un’opportunità che nessuno aveva colto: il primo impianto di birrificazione progettato per essere condiviso. Ecco come è andata…

Pubblicato il 01 Giu 2022

Photo by Brad on Unsplash

Nel mio giro c’è un detto: “La prima regola di un buon detective è fare colazione, perché se ti arriva un caso, chissà quando mangerai di nuovo”. È quasi sempre vero. Quasi, tranne questa volta.

All’inizio non l’avrei detto: il settore era quello del food & beverage, ma il caso riguardava tecnologia e startup. Parlo di nuovi composti alimentari, 3d printing di bistecche, bracci robotici che fanno i cocktail come Tom Cruise e droni per il food delivery. Tutto insieme? Sì, perché il caso riguardava la possibile apertura di un acceleratore per startup che operano nel campo di nuovi materiali e processi per l’alimentazione. Siamo prima del 2019, per capirci, e allora gli acceleratori per startup non erano in svendita come adesso.

Io e l’agente Carraro, per esempio, abbiamo incontrato un’azienda space-tech leader nella produzione di satelliti, che aveva appena lanciato una nuova linea di cibo per astronauti alla portata dei terrestri: si conservava senza additivi per sei anni. Samantha Cristoforetti in persona aveva giurato di apprezzarlo come cibo della domenica. È chiaro che per precauzione quella volta abbiamo fatto un’abbondante colazione lo stesso.

L’imprenditore che ci aveva commissionato l’indagine – il dottor Michelotti, per tutti “Il Dottore” – aveva un ottimo pedigree sia nel real estate, sia nella finanza. Il suo fiuto diceva che un acceleratore startup avrebbe coronato il matrimonio di queste due linee di sangue: aveva identificato uno spazio post industriale molto affascinante, in cui far insediare le startup, e avrebbe co-investito nelle migliori. Non da solo naturalmente, ci volevano ottimi partner finanziari. Questo avrebbe assicurato un buon flusso di ricavi sia nel breve che nel lungo periodo. Il mio fiuto invece mi diceva qualcos’altro: purtroppo ho sviluppato recettori olfattivi che percepiscono circa mezzo milione di composti odorosi presenti nei business plan sviluppati prematuramente, anche se presenti in concentrazioni bassissime nell’ambiente e impercettibili ad un naso profano. È un cattivo odore, ed era nell’aria.

“Il Dottore” mi aveva sguinzagliato proprio alla ricerca di partner, ma i partner, ho pensato guardandolo e tacendo, saranno l’ultima delle tue preoccupazioni. Qui il problema è che l’idea dell’acceleratore ha più buchi di una rete da pesca e i co-investitori non ho intenzione di prenderli a strascico. Ci vuole un caso solido, e poi, solo poi, buone connessioni. Quelle le metterà l’agente Carraro, la mia recluta, un ingegnere con poco appetito per i numeri e molto per le relazioni.

L’agente Carraro si asciuga un finta lacrima di sudore dalla fronte e dice, guardando il rudere postindustriale destinato ad ospitare le startup: “Cavolo capo, questo caso scotta. Lei sa quanto costa ristrutturare questo posto? Decine di milioni. E noi non sappiamo nemmeno da dove cominciare per capirci qualcosa!”. “Tutto vero a parte l’ultima cosa: hai presente il vecchio detto “Ci vuole un intero villaggio per crescere un bambino”? La stessa cosa vale per le startup: Ci vuole un intero ecosistema per crescere una startup. Niente ecosistema, niente startup. Quindi il primo passo è…”

“La ricognizione del villaggio!“, dice Carraro. ”Esatto, e poi se ne parla“.

Una scena molto ampia da perlustrare, a dirla tutta, ma il lavoro andava fatto con cura. Non abbiamo solo setacciato il classico ecosistema startup – fatto di investitori, università, incubatori. Abbiamo anche cercato di comprendere chi fossero gli attori dell’innovazione nel food & beverage, dai ristoratori formali a quelli emergenti, ai vinificatori, birrificatori, aziende produttrici di caffè, pasta, farinacei, gelati, eccetera. È stato questo il momento in cui abbiamo smesso di fare colazione, e la precauzione non è bastata. Carraro lievitava come l’impasto di un maritozzo, e giura a posteriori che ne è valsa la pena.

Il Dottore presidiava le riunioni di aggiornamento dietro spessi occhiali da sole, ansioso di incontrare il suo nuovo partner di investimento. Nella fotografia che gli abbiamo presentato, le startup food-tech erano poche e sparpagliate: tra incubatori universitari e poli di accelerazione specializzati in altre zone d’Italia. C’era un po’ di fermento, sì, ma qualcosa non quadrava per nulla: gli investitori per esempio ritenevano che in Italia la cultura del gusto era così radicata nella tradizione da de-celerare, di fatto, l’innovazione. Per cui deflettevano gli investimenti altrove, ignorando probabilmente che la tradizione è proprio un’innovazione ben riuscita. Il Dottore sapeva benissimo che quelle non erano buone notizie per il suo grande progetto.

“Ma”, aggiungo io, “abbiamo dell’altro. Osserviamo la stessa immagine al contrario, e cerchiamo di capire quali opportunità emergono. C’è qualcosa che è meno difficile innovare? Come facciamo a renderlo più facile?”. L’agente Carraro raccoglie la palla e continua raccontando i dettagli delle nostre escursioni nel villaggio del food&beverage. Abbiamo scoperto per esempio che mentre il vino è prigioniero della tradizione, la birra è libera! Non c’è una ricetta giusta, basta che sia buona, e quella migliore deve ancora essere inventata. Per questo la birra è una piattaforma imprenditoriale. Si comincia a farla in casa, e poi… “E poi?” ringhia il Dottore, come se avesse fiutato la preda. “E poi” continua Carraro “si raggiunge quel momento in cui devi fare il salto, ma è troppo costoso acquistare un intero impianto di birrificazione, e quindi cominci a girovagare tra i birrifici della zona, nella speranza che qualcuno ti affitti dello spazio per fare qualche migliaio di litri da provare a distribuire. Ma non sempre finisce bene: è complesso condividere un impianto che non è pensato per essere condiviso”.

Il Dottore abbassa gli occhiali, con la sua preda fresca tra i denti, solo per inchiodare la sua volontà nei miei: “Io farò questo, io farò il primo impianto di birrificazione progettato per essere condiviso, e tutti potranno venire a sperimentare nuove ricette, a bere e a mangiare”.

Sapevo bene che il caso adesso stava in piedi, e che gli investitori si sarebbero avvicinati come api al miele. Nel giro di poco ha bussato alla porta una grande multinazionale della birra, ansiosa di posizionarsi vicino al movimento dei birrificatori artigianali. La negoziazione è stata serrata, e il Dottore ha portato a casa tutto, ma proprio tutto, inclusa la disponibilità della multinazionale a rinunciare al suo brand. Ma non era abbastanza. La verità è che aveva scoperto di essersi innamorato del suo mercato, e che non l’avrebbe tradito con nessuno, nemmeno con la multinazionale, che è stata abbandonata praticamente sull’altare. Era chiaro a tutti che il movente fosse passionale, e non è stata aperta alcuna ulteriore indagine.

Carraro si lascia trascinare: ha seguito da dietro le quinte tutta la vicenda, e ad un certo punto decide di cambiare sponda, mi consegna il distintivo – si fa per dire – e salta a bordo della nuova appassionante impresa. Quante emozioni e colpi di scena! Lui e il Dottore non solo celebrano il successo della prima apertura, ma inaugurano una seconda sede, prima del tremendo guado COVID-19, e una terza, dopo. E non é finita. Un acceleratore che è diventato un pub, insomma? Piuttosto, sembrerebbe quasi il viceversa.

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!

Irene Cassarino
Irene Cassarino

Irene Cassarino, ingegnera di formazione, PhD in Gestione dell’Innovazione, è CEO e fondatrice di The Doers, ora parte del gruppo Digital Magics. Ha dedicato tutta la sua vita professionale alla ricerca di nuovi mercati, lavorando con più di 200 startup e decine di grandi aziende italiane e internazionali.

Articoli correlati

Articolo 1 di 3