LAVORARE PHYGITAL

Hub working, l’innovazione comincia dall’ufficio (anche per le PMI)

Tra home working e lavoro negli uffici si sta facendo strada un nuovo modello di utilizzo degli spazi che viene incontro alle esigenze di flessibilità di dipendenti e organizzazioni: l’hub working. Ce ne parla Roberto Guida, CEO di Phygiwork, l’azienda che ha lanciato questo modello con clienti come Terna

Pubblicato il 04 Apr 2022

Photo by NordWood Themes on Unsplash

L’hub working è un’idea moderna che Phygiwork utilizza per illustrare sinteticamente qual è il suo business incentrato sul phygital working space. Costituita nel 2017, prima che la pandemia imprimesse un’accelerazione imprevedibile allo smart working, Phygiwork oggi rappresenta una realtà che punta a rivoluzionare i paradigmi classici del luogo di lavoro. Il 2017, fra l’altro, è anche l’anno in cui nel nostro Paese è stata varata la legge 81 che disciplina il cosiddetto “lavoro agile”, segno che già allora c’era fermento attorno a nuove forme di collaborazione e che le modalità consuete del rapporto tra dipendenti e azienda necessitavano di essere riviste.

Roberto Guida, CEO di Phygiwork, in questa intervista spiega la genesi di un modello che ha mosso i primi passi negli spazi gestiti a Roma da Copernico, società che offre uffici e aree di coworking in varie città d’Italia. “Siamo partiti – ricorda Guida – immaginando il core business come uno spazio legato alla gestione differente dello smart working in un luogo che non fosse quello della casa o dell’ufficio tradizionale, ma fosse un luogo terzo”.

Qual era il vantaggio di questo luogo terzo rispetto a casa e ufficio tradizionale?

Che il lavoro potesse essere svolto non solo secondo il tipico modello individuale, ma consentisse anche di confrontarsi in un ambiente più stimolante e motivante con persone non appartenenti alla propria azienda per effetto della compresenza all’interno degli stessi luoghi di aziende complementari o che magari avevano visioni che potevano contaminare, essere fertilizzanti dal punto di vista di nuove idee. Il nostro modello partiva anche dall’idea che spostarsi dal luogo fisso dove si andava a lavorare in maniera routinaria potesse essere per il lavoratore un elemento qualificante, di maggiore motivazione per via del contesto e di un dinamismo diverso rispetto all’ufficio tradizionale.

Roberto Guida, CEO Phygiwork

Il vostro modello di hub working oggi si fonda su tre pilastri: technology, people, place. In che percentuale ciascuno di questi elementi incide sul modello?

Bisogna sempre tenere in considerazione il fattore tempo, perché la logica è evolutiva. Nel caso specifico, il nostro progetto nasce con il place come punto di riferimento centrale, rivisitato in modo tale da poter essere flessibile, efficiente, invitante ecc. Però poi la declinazione del people, che attiene al tema dell’elemento social e dell’engagement, passa sicuramente da una maggiore capacità di valorizzare la tecnologia. In realtà, la tecnologia non va utilizzata come elemento in sé, ma come strumento abilitante che consente di rendere più fruibile e in maniera più intelligente il place e l’interazione, cioè il people.

Il vostro progetto è partito in tempi non sospetti, quando ancora l’accelerazione causata dalla pandemia non aveva reso familiare un concetto, e una pratica, come lo smart working.

Sicuramente l’idea nasce grazie al tumultuoso crescere delle sedi di Copernico, che ha fatto un po’ da trendsetter di questo tipo di modello, ma l’elemento visionario per noi era la dinamica di riposizionamento della relazione tra lavoratore e azienda.

Vale a dire?

Abbiamo tenuto conto, innanzitutto, dell’evoluzione digitale e poi delle esperienze che il lavoratore voleva vivere e che l’azienda voleva fargli vivere per garantire la redemption, la fiducia nell’azienda attraverso, ad esempio, tecniche di employer branding. Di employer branding si parlava già da anni, però non era chiaro che il modo di lavorare, strettamente connesso al luogo in cui si svolgeva, era determinante per la fidelizzazione del dipendente forse più degli incentivi economici o di carriera. Semmai bisognava eliminare i disincentivi che spingono a lasciare il lavoro e puntare sul wellness, che poi è emerso come componente fondamentale dell’employer branding. Quel tipo di “radice” che abbiamo piantato ha avuto un’accelerazione per il Covid che, a causa della forzata rinuncia alla routine dell’andare al lavoro la mattina, ha fatto scoprire un nuovo mondo. Certo, anche un mondo ansiogeno, come tutte le volte che c’è un cambiamento a cui bisogna adattarsi, però che nella componente più giovane della community dei lavoratori è stato particolarmente apprezzato, tanto da non poterne più fare a meno.

E se non ci fosse stata la pandemia?

Credo che saremmo comunque arrivati lo stesso alla situazione attuale, ma con tempi diversi. Probabilmente la pandemia ha dato una scossa più che ai lavoratori, che specialmente tra i millennials e la generazione Z ci sarebbero arrivati, alle imprese. Dal loro punto di vista c’era una logica più radicata da superare, che era quella del tempo trascorso in azienda uguale a tempo utile dedicato al lavoro. È un falso sillogismo, ma è il motivo per cui molte aziende sarebbero arrivate tardissimo a una dinamica alternativa a quella a cui il Covid le ha costrette. Ritengo che il nostro modello sia disciplinante in questo senso e aiuti a comprendere come alcune forme di engagement del personale non cedano al mancato lavoro o alla perdita di tempo, ma a un’esperienza lavorativa più coinvolgente e performante. Perché la misura dell’efficienza e dell’efficacia va fatta sul risultato, non sul tempo di permanenza in un luogo.

Come si declina tutto questo nel concetto di hub working con cui voi vi identificate? Come nasce questa espressione?

L’evoluzione, anche dal punto di vista terminologico, risale alle esigenze delle grandi imprese di ragionare in termini di hub quarter, cioè di ridisegno dell’headquarter in funzione di una logica più flessibile e più accogliente. Il tema dell’hub working è sorto in ragione della domanda della nostra clientela. A un certo punto ci siamo trovati a interloquire con soggetti di media-grande dimensione come Terna che ci hanno sottoposto la difficoltà di molti loro lavoratori nel poter fare smart working da casa per diverse ragioni: spazi stretti, connessione insufficiente, situazione di alienamento e così via. Da qui ci è venuta l’idea dell’hub working, che rappresenta uno smart working terzo rispetto alla dinamica bipolare del remote o home working e del working in azienda.

Il caso di Terna è emblematico di come una grande azienda cerchi di rispondere alle esigenze di flessibilità dei propri dipendenti. E le PMI invece come si stanno muovendo su questo fronte?

Le piccole e medie imprese hanno un’esigenza differente, in qualche modo anche più forte di quella delle grandi imprese, legata all’efficientamento, cioè al risparmio di costo e alla flessibilità. Infatti, la possibilità di operare uno smart working rotativo per una percentuale del personale che potrebbe essere pari a 50-60 dei dipendenti con l’hub working è immediata. Cosa che invece non potrebbe avvenire con una locazionetradizionale, perché non consente quel downsizing o quell’upsizing degli spazi che con l’hub working si può fare in qualsiasi momento.

È un’opportunità che viene facilmente colta dalle PMI?

L’unica difficoltà su cui noi facciamo molta didattica riguarda il tema della valutazione dei costi complessivi. Molto spesso la comparazione che fanno le piccole e medie imprese riguarda solamente il costo della superficie, che è un modello ormai totalmente superato, poiché non tiene conto di tutti i servizi a corredo, come possono essere ad esempio utenze, pulizie ecc. Voci che non solo hanno un costo diretto, ma di organizzazione e coordinamento. Poiché l’hub working è una formula all-inclusive.

Alle PMI spiegate la convenienza costi-benefici del modello. E alle istituzioni, invece, in che modo illustrate i fattori di novità della vostra proposizione?

Per far capire l’impatto dell’hub working all’interno della città o del contesto più ampio, raccontiamo sempre che il nostro modello è particolarmente sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, due elementi che oggi sono nei 17 goal dell’ONU. Noi consentiamo, infatti, ai lavoratori di spostarsi di meno e di avere un punto di riferimento vicino casa, molto di più che non la sede di lavoro tradizionale. In questa ottica, abbiamo commissionato recentemente un report di circolarità ad Enel X e abbiamo avviato una serie di investimenti per rendere più sostenibile il nostro modello, compresa l’attivazione di mezzi di trasporto a bassa emissione climalterante che possono essere scelti tramite la piattaforma digitale per poter raggiungere i nostri hub. Non ci occupiamo soltanto dell’efficientamento energetico degli edifici, ma proponiamo un paradigma di mobilità per una smart city che abbia come perno gli hub work. Sulla sostenibilità sociale, ça va sans dire, nel momento in cui ci sono meno spostamenti e meno disagi, questo ricade ovviamente sul wellness dei lavoratori.

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Carmelo Greco
Carmelo Greco

Giornalista e scrittore

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