“Siamo soddisfatti di essere stati i pionieri dell’equity crowdfunding in Italia e mi auguro che tanti altri ce la facciano, perché può essere uno dei motori della ripresa in Italia: è il lato buono della finanza, può aiutare giovani meritevoli e volenterosi a trasformare i propri sogni in realtà”. A dirlo è Daniele Bernardi, amministratore unico di Diaman Tech, società veneta fornitrice di applicativi software per la finanza che, nel rispetto della legge italiana, è stata la prima in Europa ad aver raccolto capitale di rischio, 160mila euro in tutto, attraverso un portale di equity crowdfunding, raccolta fondi online che prevede quote del capitale in cambio dell’investimento in una società.
Come siete arrivati fin qui?
In realtà la mia prima “startup” l’ho fondata nel 2002: Diaman Scf, società di consulenza sugli investimenti con sede a Marcon, Venezia. In seguito abbiamo sviluppato un software per contribuire a migliorare il lavoro dei promotori patrimoniali. A quel punto abbiamo deciso di scorporare la nostra attività di sim (società di intermediazione mobiliare) da quella di vendita di software e nel novembre 2012 abbiamo fondato Diaman Tech, con l’obiettivo di iscriverla al registro della Camera di Commercio come startup innovativa. Così è stato. Dopodiché ho avuto modo di parlare con Leonardo Frigiolini, presidente e ad di Unicasim Spa, che gestisce il portale di equity crowdfunding Unicaseed. Mi ha spiegato di cosa si trattava e, dato che ci conoscevamo da prima, mi ha detto che aveva bisogno di una realtà imprenditoriale credibile per essere certo che la prima operazione di questo tipo nella storia italiana andasse a buon fine.
C’era questo rischio? E perché?
Sono pochi per il momento a conoscere l’equity crowdfunding in Italia. Inoltre, se ci si imbarca in questa avventura, c’è da fare un gran lavoro di marketing. Noi ce l’abbiamo fatta perché abbiamo spinto molto sulle rete delle nostre conoscenze. D’altra parte la mia massima è: chi divide perde, chi condivide vince. Poter coinvolgere i clienti in un’iniziativa imprenditoriale ci ha portato un valore aggiunto: non conta tanto la cifra versata da ciascuno, quanto far sentire l’utente in qualche modo direttamente partecipe dello strumento che utilizza per lavoro.
In quanti hanno investito in Diaman Tech?
Siamo arrivati a 75 soci, di cui 50 utilizzano il nostro software. Li abbiamo convinti anche introducendo uno sconto sull’abbonamento annuale al software per chi diventava socio. Tre degli investitori sono istituzionali: due banche e una società di gestione. Ci sono stati anche tre investitori fuori dalle nostre cerchie, che hanno deciso di darci 10mila euro a testa senza averci conosciuto prima. Degli investors, 28 hanno versato 490 euro ciascuno, per non sforare la soglia dei 500 euro oltre la quale le procedure burocratiche diventano più stringenti. Ma abbiamo dovuto assumere una persona solo per seguire passo passo gli investitori.
Procedure troppo complicate?
Sicuramente. La legislazione italiana sull’equity crowdfunding, che peraltro è la prima in Europa, prevede purtroppo molta burocrazia. Da parte dell’investitore serve una ferrea volontà di effettuare l’investimento, da parte dello startupper è indispensabile la consapevolezza che non bisogna lasciar andare gli investitori, ma occuparsene a tempo pieno. Se uno startupper è bravissimo a scrivere codici ma non è in grado di fare marketing, l’equity crowdfunding non fa per lui. Il fatto è che le istituzioni finanziarie puntano a proteggere al massimo chi effettua l’investimento, ma è una protezione che rischia di diventare eccessiva e può frenare chi intende scommettere nelle giovani imprese.
E ora cosa farete con i finanziamenti raccolti?
Una piccola quota sarà destinata al piano commerciale, ma la maggior parte andrà per lo sviluppo tecnologico: stiamo pensando a un upgrade del software per migliorare la user experience del cliente. Voglio che diventi un’esperienza di successo dal punto di vista aziendale, non solo per quanto riguarda il capitale raccolto.
Lo rifarebbe?
Sì. Io stesso ho intenzione di investire in startup attraverso questo meccanismo. È un modo per premiare quei giovani che non si piangono addosso e si rimboccano le maniche per inventarsi un lavoro, invece di restare a casa ad aspettare un posto fisso che sembra ancora ‘dovuto’ ma che molto probabilmente non arriverà.