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Corporate Explorers, non si fa vera innovazione con gli eroi solitari in azienda

I Corporate Explorers sono un nuovo modello di innovazione? No, perché le persone con attitudini imprenditoriali e capacità di relazione sono sempre esistite. L’innovazione aziendale non parte dall’iniziativa dei singoli e non si sviluppa senza obiettivi, strutture e budget dedicati

Pubblicato il 02 Nov 2021

Photo by Greta Farnedi on Unsplash

Negli ultimi giorni di ottobre ha riscosso una certa popolarità il tema dei “Corporate Explorers” teorizzato da Andy Binns a partire da alcune esperienze di innovazione sorte all’interno di Panasonic, UNIQA e Analog Devices. Nello specifico si tratta dell’avvio di nuovi business e servizi sviluppati all’interno dell’azienda su iniziativa di dipendenti capaci di concepirli e farli crescere. I “Corporate Explorers” appunto, ossia persone che hanno avuto una visione imprenditoriale e hanno deciso di svilupparla all’interno della propria azienda facendo leva sugli asset, base clienti e competenze di questa.

Tra le caratteristiche dei Corporate Explorers, oltre ad una spiccata attitudine imprenditoriale, emerge la capacità di muoversi all’interno dell’azienda. Devono essere “social animals”, in grado di navigare attraverso la politica delle grandi aziende e conquistarsi il consenso del top management così come dei colleghi (la possibilità di usare un plant per fare un pilota o l’accesso al team di sales viene di norma percepita come una “irritating distraction”).

Ma la vera domanda è: siamo di fronte a un nuovo modello per sviluppare nuovi business in adjacent o disruptive markets? Se sì, cosa lo distingue dal “Venture Builder” che, come discusso in precedenti post, è il modello emergente con cui le aziende sviluppano business innovativi?

La risposta è no. I “Corporate Explorers” sono sempre esistiti. Si tratta in sostanza di iniziative sporadiche avviate da individui con una forte propensione imprenditoriale e indubbie capacità. Il limite è che si tratta di iniziative isolate che, in quanto tali, non sono necessariamente replicabili.

L’innovazione aziendale può partire dall’iniziativa di singoli ma non si può fermare lì se si vogliono garantire flussi di innovazione continui. Questo richiede unità dedicate e strutturate con obiettivi precisi, budget allocati e top-level buy-in. Questi si chiamano Venture Builders di cui oggi ci sono diversi benchmark cui guardare.

Mind the Chat with Susanne Hahn (1886 Ventures)

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In conclusione:

  • Per innovare non serve cercare nuovi modelli o ridenominare in modo nuovo cose che già esistono.
  • L’innovazione può nascere su iniziativa di singoli (chiamateli explorers o come vi piace di più) ma non può fermarsi lì: il rischio è che questi singoli si tramutino in “innovation heroes” che, alla Don Chisciotte, si schiantano contro i mulini a vento aziendali.
  • Per innovare (ripeto, stiamo parlando di adjacent o disruptive innovation, non incremental) servono unità dedicate e strutturate con risorse e obiettivi ben definiti. Si chiamano Venture Builder. Al riguardo ci sono benchmark e modelli che si stanno affermando sul mercato (BP Launchpad, Telefonica, Engie, Enagas, SAP, Airbus, Daimler…). Guardiamo a loro e a come funzionano, senza perderci in nomi affascinanti dietro cui si cela poco o nulla di nuovo.

Innovazione. Meno nomi, più fatti.

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Alberto Onetti
Alberto Onetti

Chairman (di Mind the Bridge), Professore (di Entrepreneurship all’Università dell’Insubria) e imprenditore seriale (Funambol la mia ultima avventura). Geneticamente curioso e affascinato dalle cose complicate.

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