Se provassimo a mettere da parte per un attimo la drammaticità degli eventi vissuti negli ultimi 17 mesi, accantonando la componente emotiva a favore di quella logica, qualcuno di noi si renderebbe conto che siamo testimoni di uno dei momenti di cambiamento più significativi del mondo moderno. Una metamorfosi, delle abitudini di vita, dei modelli economici, di quelli comportamentali ma soprattutto di lavoro e dei lavori.
È indubbio che la pandemia – e le azioni che sono state adottate per resistervi, da un lato, e imparare a convivere con la sua presenza, dall’altro – ha impresso un’accelerazione al cambiamento di una moltitudine di elementi caratterizzanti la nostra società di cui il lavoro è uno dei pilastri fondanti, modificando il modo attraverso il quale abbiamo sempre ritenuto dovesse essere prestato: in presenza, con la messa a disposizione delle forze entro un orario predefinito. Questa era la “rappresentazione” che ha orientato la costruzione di tutte le norme giuridiche che compongono l’ordinamento del diritto del lavoro e che oggi possono apparire in un certo qual modo vecchie, superate, inutili ai nuovi scopi.
Certo la frizione fra il “vecchio” assetto di regole e le nuove esperienze del mondo del lavoro è percepibile anche ai non tecnici, testimoni degli effetti pratici di questo conflitto nel vissuto quotidiano: si pensi alle difficoltà di inquadrare il fenomeno dei rider entro le classiche categorie del lavoro subordinato e di quello autonomo e il dibattito politico che ne è scaturito, tutto proiettato a far sì che questi lavoratori fossero considerati subordinati ai fini di una maggior tutela. Un errore gravissimo di impostazione socio-politica, come se le tutele dovessero derivare, all’interno di un sistema giuridico evoluto, dal tipo di inquadramento spettante a un lavoratore in forza della sua prestazione, e non già dall’essere parte di un sistema di regole che di base dovrebbe prevedere condizioni di tutela adeguate, se non equanimi, indipendentemente dal modo in cui la prestazione è resa (!).
Un errore, dicevo, frutto evidentemente della incapacità di alcuni di capire che l’importanza storica rappresentata dall’occasione di evoluzione del sistema giuridico dovrebbe sempre prevalere, non foss’altro che per ragioni di civiltà ed etica, rispetto alla meno nobile esigenza di cavalcare il protagonismo politico, un male dei nostri tempi che rallenta la crescita e fa perdere un sacco di tempo, e di soldi, alla società civile.
Smart working, una regolamentazione superata
C’è da augurarsi che analoga sorte non spetti allo smart working, che dei cambiamenti in essere nel lavoro rappresenta forse il caso paradigmatico per eccellenza, e per questo motivo merita una disamina tecnica strutturata, che parta dalla valutazione delle diverse esigenze dell’uomo-lavoratore del 2021 (in avanti), per costruire attorno ad esso un nuovo modello organizzativo che sappia cogliere il massimo livello di efficacia della espressione delle persone e delle aziende. Ed il tutto andrà declinato in un altrettanto nuovo quadro normativo, perché è chiaro che anche i diritti ed i doveri connessi alla prestazione sono in un certo qual modo diversi come diversa è la modalità di lavoro, che sarebbe alquanto limitativo considerare di esclusiva pertinenza del “luogo” in cui questa può essere svolta, dato che è proprio il paradigma del lavoro che nello smart working cambia prospettiva.
Se osserviamo lo smart working alla luce dell’esperienza personale di questo tempo, percepiamo subito che la definizione del legislatore dell’istituto (“…allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, promuovono il lavoro agile..”), che ne racchiude la ratio e il senso della sua regolamentazione, è superata, non coincide con la realtà, al punto che lo smart working che molti stanno sperimentando è una terra straniera che, in periodo di emergenza, consente alle aziende di disporre unilateralmente senza che ci sia bisogno di un accordo.
Non siamo più in presenza di un “modo di rendere la prestazione”, ma di un processo di cambiamento nel modo di considerare il lavoro da parte di lavoratore e datore di lavoro, che sta sviluppando una nuova categoria di lavoratori che non lavorano più per l’imprenditore, ma con l’imprenditore.
È un passaggio d’epoca, i cui effetti diretti e indiretti sul lavoro in senso lato sono tutti da studiarsi perché non si sono ancora verificati, si stanno verificando adesso. Stiamo parlando del paradigma stesso su cui il contratto di lavoro è stato costruito, che viene messo in discussione insieme all’impianto adattivo / integrativo dei contratti collettivi: il luogo di lavoro e l’orario sono due temi che hanno assunto la veste di diritto attorno ai quali si sono consumati e si consumano ancora oggi accese battaglie sindacali, ma il loro peso svanisce dinanzi ad una modalità immateriale di rendere la prestazione.
E se questa modalità, perché funzioni, agisce sullo sviluppo di una autonomia nell’esercizio delle mansioni mai sperimentata prima, spostando il focus dall’obbligo di mezzo a quello di risultato, la metamorfosi è compiuta, i capisaldi del lavoro subordinato conquistati in 100 anni vengono scossi dagli attori protagonisti: lavoratori e datori di lavoro.
Forse è una nuova rivoluzione industriale, e magari non meno impattante di quelle che l’hanno precedute, tanto più che gli strumenti e la tecnica che la stanno spingendo sono nel senso di una profonda digitalizzazione del lavoro e spingono la tecnologia verso livelli di integrazione con le mansioni mai sperimentati prima.
La gestione dei nuovi diritti del lavoro
È un cambiamento che sarebbe tuttavia il caso di non subire ma cercare di governare anticipandone alcuni tratti con capacità statistica e visione industriale del futuro. Per far questo occorre una progettazione a diversi livelli, normativo, individuale ed organizzativo, percorso durante il quale verremo sottoposti a due fenomeni assai interessanti da osservare. Da un lato l’affermazione di nuovi diritti in funzione di nuovi beni giuridici da tutelare (si pensi alla sfera privata, alla riservatezza, alla iper-connessione, alla salute contro i tecnostress, ecc.), dall’altro la gestione del processo di modifica di diritti vecchi che andranno cambiati, con le resistenze che ciò comporterà, molte delle quali andranno affrontate con le organizzazioni sindacali. Il sindacato, che quei diritti ha conquistato sul campo, da tempo fatica a intercettare le nuove tendenze del lavoro, dimostrando di guardare al futuro con logiche superate così finendo per ingaggiare lotte di posizione poco efficaci, ma soprattutto scarsamente utili al lavoro nel suo complesso.
Competenze manageriali e uso della tecnologia
Mescolando l’ordine delle priorità, la prima leva su cui occorre intervenire è l’individuo, il quale dovrà essere supportato nello sviluppo di competenze manageriali in cui la componente autonomistica si coniuga e sviluppa con il sapiente uso della tecnologia, che dovrà – per forza di cose – a sua volta essere coniugata con la presenza fisica, che ancora oggi è la principale fonte di confronto ed arricchimento, giacché la distanza non consente di sfruttare appieno ciò che deriva dal confronto ravvicinato in termini di empatia, emozionalità, ragionamento, che sono la base dello sviluppo delle idee.
Tre priorità per le aziende e gli HR manager
La seconda leva è rappresentata dalle organizzazioni e dai loro Hr, chiamati ad agire sullo studio e attuazione di nuove politiche organizzative che:
(i) disarticolino l’equazione luogo di lavoro – attività – mansioni verso una naturale flessibilità della prestazione, focalizzata sul risultato anziché sul mero tempo impiegato per raggiungerlo (e forse in questo modo riusciremo a ridurre il tempo di lavoro anche noi, come hanno fatto altri, senza intaccare la produttività);
(ii) sviluppino adeguata cultura digitale, agevolando il processo di maturazione tecnologica che persone e aziende sono ancora di là da aver acquisito;
(iii) incrementino la cultura della leadership, a tutti i livelli, che sappia guidarli nell’esercizio di concentrazione, individuazione dei momenti in cui il contatto umano deve prevalere, evitando di perdere in termini di efficacia ed efficienza per non trasformare lo smart working in una gabbia tecnologica fagocitante il tempo della vita.
Un nuovo contratto individuale per lo smart worker
Da ultimo, la terza leva non può che essere rappresentata dalla norma: qui serve superare l’assetto attuale puntando ad un contratto individuale di lavoro ad hoc, che sia strutturato per essere nativamente impostato sulla figura del lavoratore smart worker, che ne tuteli i diritti – diversi nel loro materiale atteggiarsi da quelli di chi lavora in presenza, attesa la pervasività della tecnologia nella vita quotidiana – bilanciando anche quelli del datore di lavoro, non meno importanti.
Individuale ho detto e non collettivo, poiché non credo che un contratto collettivo per lo smart working abbia un senso stante la natura giuridica dei contratti collettivi, destinati a singoli comparti il che richiederebbe una proliferazione di contrattazione che aggiungerebbe ulteriore disarmonia e confusione in una giungla in cui si contano già decine di migliaia di strumenti simili, molti sottoscritti in totale assenza di reale rappresentatività da parti sindacali nate per pura comodità.
Ben venga invece la contrattazione aziendale: questa è la sede principe nella quale adattare le norme alle effettive esigenze dell’impresa, sviluppare cultura aziendale diffusa e rendere il sindacato partecipe del business e delle scelte strategiche aziendali.