Tech transfer: chi investe in trasferimento tecnologico in Italia e perché / 2

ITAtech, Fondo Nazionale Innovazione ed Enea Tech sono le organizzazioni che in Italia finanziano il trasferimento tecnologico, ovvero il passaggio dalla ricerca all’industria. Vediamo come e quali capitali sono a disposizione

Pubblicato il 15 Set 2020

Trasferimento tecnologico (tech transfer): i fondi

In Italia non manca la qualità della ricerca scientifica, allora cosa ci è mancato sino ad oggi per mettere in pratica e alimentare il trasferimento tecnologico? (QUI il precedente articolo sul tech transfer in Italia). Sicuramente la disponibilità di capitali dedicati, un ecosistema industriale in grado di assorbire le innovazioni e una visione strategica di lungo periodo da parte dello Stato che ponesse al centro dell’agenda di governo uno sviluppo educativo ed economico improntato sulla ricerca scientifica, l’innovazione e il Technology Transfer.

Ma qualcosa si è mosso e molto accadrà nei prossimi mesi. Vediamo in dettaglio il perché.

Fondi per il tech transfer: ITAtech

Si tratta della piattaforma promossa a fine 2018 congiuntamente da Cassa Depositi e Prestiti e Fondo Europeo per gli Investimenti, quando a capo delle due strutture c’erano Fabio Gallia e Pierluigi Gilibert. In totale 200 milioni, che sono stati investiti secondo un approccio internazionale di successo, quello dei “fondi di fondi”. In sostanza, questi 200 milioni non sono stati investiti direttamente in iniziative di Tech Transfer ma sono stati dati in gestione a team strutturati, professionali, con elevate competenze e soprattutto forte motivazione a “investire bene” e che nei successivi 5 anni faranno del proprio meglio per portare su mercato le migliori innovazioni generate nei laboratori di ricerca del Paese.

ITAtech é stato uno strumento efficace, per molte ragioni:

  • ha contribuito a portare l’attenzione su questi temi a livello nazionale, portandolo oltre la sfera degli addetti ai lavori dell’ambito università e centri di ricerca;
  •  ha operato come fondo di fondi, il che ha consentito una adeguata diversificazione degli investimenti, che vanno dall’industry 4.0, alle orphan drugs sino agli advanced materials;
  • la selezione dei fondi in cui ha investito é stata gestita da team competenti del Fondo Europeo per gli Investimenti, l’investitore più grande in Europa in fondi di venture capital e Technology Transfer;
  • grazie al suo strutturato processo di due diligence (che dura sempre più di un anno), ITAtech ha assicurato che solo i team migliori (in termini di competenze, motivazione e track record) abbiamo ricevuto i capitali da investire;
  • ha consentito ai team di gestione di fare il cosiddetto “first closing” dei fondi solo con capitali di FEI e Cdp, grazie al quale hanno avviato i primi investimenti e continuato l’attività di Fund raising con altri investitori.

Per i “detrattori” di tale iniziativa, ricordo che i capitali allocati da FEI-CDP ai gestori debbono essere obbligatoriamente investititi per un minimo del 90% fino anche il 100% in progetti italiani. Tale previsione è inserita nel Regolamenti dei Fondi, il “contratto” che regola i rapporti tra gli investitori del Fondo e il gestore, per dirla in termini anglossassoni, tra il limited partner (LP) e il general partner (GP) del Fondo. L’aver mantenuto in alcuni casi un 10% da poter investire a livello europeo rappresenta un buon modo per garantire una diversificazione di portafoglio, seppur minima, al fine di aumentare le probabilità di raggiungere un ritorno adeguato ai capitali investiti.

Ed ecco i 5 fondi finanziati da ITAtech:

I fondi finanziati da ITAtech
Fonte: European Investment Fund

Ho il piacere di coordinare il Gruppo di lavoro sul Technology Transfer di AIFI, l’associazione di categoria degli investitori in Private Capital, tra cui appunto anche i fondi di venture capital e di tech Transfer. Di recente abbiamo mappato gli investimenti in Italia fatti negli ultimi anni in iniziative di tech transfer, che risultano decisamente aumentati in numero e in ammontare investiti negli ultimi due anni proprio grazie a fondi ITAtech.

5 fondi ITAtech hanno raccolto complessivamente oltre 280 milioni di Euro (200Ml da FEI-CDP e 80Ml sul mercato da altri investitori) e al 30.6.2020 effettuato 46 investimenti per un totale di oltre 42 milioni di Euro.

Fonte: Presentazione dati VEM – Venture Capital Monitor, 14.07.2020

I dati confermano che, se fino a qualche anno fa gli investimenti in spin off universitari erano saltuari e soprattutto basati su un approccio opportunistico, è solo grazie a ITAtech che sono nati fondi esclusivamente dedicati a questa filiera del venture capital, sulla scorta di quanto succede con successo già da tanti anni all’estero. Successivamente alla crisi delle dot.com nei primi anni 2000, c’erano infatti solo poche società di investimento che guardavano al mondo dell’Università e dei centri di ricerca: in primis, Quantica SGR (società di cui sono co-fondatore, partecipata tra gli altri dall’Istituto Nazionale Fisica della Materia, poi confluito nel CNR) che con il Fondo Principia ha investito in spin off universitari e progetti collegati alla ricerca scientifica italiana, tra cui la biotech EOS, che ancora oggi rappresenta una delle exit più significative in Italia. Investivano in quegli anni anche Fondamenta SGR con il Fondo TT Venture (investito in Directa Plus, quotata al mercato AIM in UK nel 2016), Innogest SGR (investito in Silycon Biosistem, ceduta a Menarini nel 2013), Finlombarda SGR, i Fondi Atlante di Banca Intesa, META (investito in GreenBone e Biogenera, oggetto di interesse in una business combination con una Spac italiana). All’epoca eravamo in pochi a parlare di venture capital e tech transfer era una parola ai più sconosciuta. Eppure avevamo già le avvisaglie di quanto fosse elevata la qualità della ricerca scientifica italiana e di quanto fossero non adatti i processi di trasferimento di tecnologia e innovazioni sul mercato.

Fondi per il tech transfer: Fondo Nazionale Innovazione

Nell’ultimo anno in maniera dirompente è sceso in campo il Fondo Nazionale Innovazione, forte di grandi (si intende, per il mercato italiano) disponibilità finanziarie e di una visione chiara e soprattutto di lungo termine, per connettere le diverse filiere e contribuire a creare il famoso ecosistema che da sempre chiediamo tutti a gran voce. La slide del piano industriale di Cdp Venture rende molto l’idea di quale potrà essere l’impatto generale sul  venture capital italiano. L’ammontare complessivo che Cdp prevede di investire nei prossimi anni si avvicina al miliardo di Euro. Per dare contezza dei numeri, ricordo ai meno pratici del settore che nel 2019 gli investimenti a vario titolo effettuati in venture capital (da fondi istituzionali, business angels, crowdfunding, etc) hanno raggiunto il record storico, toccando circa 600 milioni di Euro.

Fonte: Cdp Venture Capital SGR, Presentazione Piano Strategico del 23.06.2020

A fine anno dovrebbe essere operativo il Fondo di Tech Transfer; stante le indiscrezioni raccolte sul “mercato”, si tratterebbe di un fondo dedicato a finanziare dei verticali tematici, anche in partnership con le università e i centri di ricerca. Delle “fabbriche POC” attorno a 4 aree di ricerca (robotica-meccatronica-meccanica, life science, agritech e materiali), nella forma sia di investimenti indiretti (una sorta di ITAtech II) sia di investimenti diretti in startup e spin-off.

Fondi per il tech transfer: ENEA Tech

E’ la sorpresa del 2020, confermata a fine agosto. Un vero coniglio uscito dal cilindro, un cigno nero per come ci eravamo ormai rassegnati. Il Ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli ha infatti di recente firmato il decreto di approvazione dello statuto della Fondazione Enea tech (prevista dal Decreto Rilancio dello scorso maggio), con una dotazione iniziale di 500 milioni di Euro e un capitale di funzionamento pari a 17 milioni di Euro per il solo 2020 (5Ml per l’attuazione di una convenzione tra il MISE ed Enea e 12Ml per l’istituzione e operatività della Fondazione).

Vediamone alcuni passaggi, qui il testo in GU:

Art 42: Le risorse sono “volte a favorire la collaborazione di soggetti pubblici e privati nella realizzazione di progetti di innovazione”; in particolare il comma 3 dell’art. 51 autorizza il Ministero dello sviluppo economico, a valere sulle disponibilità del fondo, a intervenire attraverso la partecipazione indiretta in capitale di rischio e/o di debito, anche di natura subordinata.

La Fondazione avrà lo scopo di promuovere investimenti e iniziative in materia di ricerca e sviluppo e trasferimento tecnologico a favore delle imprese operanti sul territorio nazionale, con particolare riferimento alle start-up innovative e alle pmi innovative.

la Fondazione Enea Tech potrà partecipare e investire in startup e pmi innovative, spin-off universitari e di centri di ricerca e sviluppo, promuovendo e sostenendo i processi di innovazione e trasferimento tecnologico delle pmi per la creazione di imprese ad alto contenuto tecnologico.

Purtroppo di ENEA Tech tanto altro ancora non si trova, siamo tutti in attesa che vengano ufficializzate le nomine già note da tempo agli addetti ai lavoro e definito il piano strategico. L’auspicio é che possa allocare la maggior parte di questa importante dotazione secondo la modalità del fondo di fondi, investendo quindi in fondi gestiti da team specializzati ed esterni ad Enea, anche agendo da facilitatore per la costruzione di cosiddetti first time team – first time fund. Magari anche in co-investimento con le risorse messe a disposizione per la stessa finalità da Cdp e dal Fondo Europeo per gli Investimenti, mettendo a fattor comune quelle esperienze già consolidate e soprattutto quelle competenze che sono necessarie per effettuare le due diligence dei fondi in cui investire. Una parte residuale dei 500 milioni potrebbe essere investita direttamente dal team della Fondazione Enea Tech in singole operazioni di tech transfer, quelle a maggior rischio quali ad esempio i POC, a vantaggio di tutto il sistema. Solo così avremo maggiori probabilità di allocare capitali in maniera efficiente, senza particolari effetti distorsivi di spiazzamento.

Linee guida per il futuro

Possiamo permetterci di fare qualche ulteriore raccomandazione a chi dovrà definire le modalità e gli ambiti di intervento di FNI e Enea Tech, delineando delle linee guida per il futuro del Tech Transfer in Italia, per il bene del Paese e di tutto il sistema della ricerca e dell’innovazione italiana, affinchè l’immenso patrimonio della nostra ricerca scientifica venga finalmente valorizzata ma senza gli effetti cosiddetti di crowding out, ossia di spiazzamento di precedenti misure già operative. Se tante sono le iniziative che si potrebbero implementare per tentare di colmare – anche in minima parte – l’enorme divario che si é creato con il resto dell’Europa e del mondo più avanzato in generale in oltre 30 anni, ritengo sia opportuno concentrarsi su pochi punti.

Vediamoli insieme, brevemente, perché ogni proposta potrebbe essere oggetto di un successivo articolo di approfondimento.

Lancio di Fondi POC dedicati. Nei modelli consolidati e di successo di Tech Transfer all’estero un ruolo importante viene giocato dai fondi proof of concept, con un orizzonte temporale lungo (anche oltre i 10 anni) e l’obiettivo di sviluppare percorsi di maturazione tecnologica fondamentali per poter attrarre il successivo investimento da parte dei fondi di venture capital; fondi che siano in connessione con partner industriali (che possono in futuro assorbire le tecnologie e le innovazioni) e con figure di supporto quali entrepreneurs in residenceo executive in residence. In assenza di fondi dedicati per singola università e centro di ricerca e di adeguato ammontare, in grado di agire a livello di proof of concept di una tecnologia, considerata da più un’area di “fallimento di mercato” stante l’altissimo rischio di insuccesso e la ridotta capacità di attarre investimenti, molte innovazioni non raggiungeranno mai il mercato. In termini tecnici, non avanzeranno di TRL (technology readiness level), ossia di maturazione tecnologica. Alcune università hanno avviato iniziative sperimentali in questo campo utilizzando fondi propri, ma questa impostazione non è sostenibile a livello di sistema. I nuovi capitali di FNI ed Enea Tech potrebbero quindi anche essere in parte dedicati a promuovere fondi al servizio dei POC nei centri di eccellenza riconosciuti nel paese, per finanziare le fasi che vanno dal momento dell’invenzione a quello di prima prototipizzazione preindustriale. Ricordo che il primo fondo POC all’Università di Oxford risale al 1999, più di vent’anni fa, ed era parte dei 19 “University Challenge Funds” promossi dal governo inglese per stimolare la cooperazione tra la ricerca e l’industria.

Incremento delle competenze dei TT manager. Sono delle risorse fondamentali affinchè si realizzino dei processi virtuosi di tech transfer: manager che devono essere in grado di comprendere la lingua della scienza e quella del business, per aiutare il ricercatore a scrivere un brevetto o a creare uno spin-off, individuare delle collaborazioni industriali, definire contratti di licenza, gestire il portafoglio brevettuale e tanto altro ancora. In Italia oggi servono iniziative e capitali per aumentare la numerosità e il livello di competenze dei manager impiegati negli uffici di technology transfer delle università e dei centri di ricerca. Tom Hockaday, Managing Director di Oxford University Innovation dal 2006 al 2016 ci ricorda che un ufficio di Technology Transfer helps researchers who want help to transfer the results of their research.  Ma un ricercatore/inventore si fa aiutare se riconosce nel suo interlocutore competenze che egli stesso non ha e se riconosce al TT manager capacità di ascolto e di comprensione. Deve esserci insomma un valore aggiunto reale e percepito nella relazione tra il ricercatore e il manager del technology transfer, cosa che in Italia attualmente non capita molto spesso. E così, i nuovi capitali di FNI ed Enea Tech potrebbero essere utilizzati in parte sia per finanziare l’acquisizione di manager da altri paesi sia per definire percorsi di formazione ulteriore per le risorse già in campo come per nuovi manager del TT, che possano fare esperienza in università, nelle società spin-off e nell’industria. Molto utili sono stati i bandi dell’UIBM di capacity building degli uffici di TT, grazie al quale per esempio il numero di questi professionisti è aumentato – anche se di poco – negli ultimi anni, passando, in media, da 3,8 a 4,2 (dato Report Netval 2018)

Corporate. La relazione tra il mondo della ricerca scientifica e quello delle corporate è determinante per il tech transfer e deve essere fortemente rilanciato, prevedendo anche incentivi fiscali specifici (ulteriori a quelli già in essere per l’investimento in startup) per i) svolgere attività di ricerca congiunta o commissionata alle università e ai centri di ricerca e ii) investire in fondi di venture capital dedicati al trasferimento tecnologico. All’estero in particolar modo le grandi aziende industriali non solo investono frequentemente in fondi di venture capital gestiti da terzi ma lanciano anche i cosiddetti corporate venture capital fund (CVC), ossia veicoli finanziari che hanno in alcuni casi l’obiettivo dichiarato di investire in tecnologie e startup vicino all’area di business della singola impresa promotrice del CVC e in altri di raggiungere una diversificazione di attività.

Rimozione del Professor Privilege e adeguamento normativa. l’Italia è tra i pochissimi paesi, insieme alla Svezia, dove le Università e gli Enti di Ricerca Pubblici non hanno la proprietà delle invenzioni generate dal loro personale nei loro laboratori. Questo penalizza tutto il sistema, che deve avere un quadro omogeneo e in linea con le best practice internazionali. Sarebbe utile un aggiornamento della normativa di riferimento: è del 2001 (art. 7, L. n. 383/2001) la norma in Italia che attribuisce ai ricercatori delle università e degli enti pubblici di ricerca la proprietà delle invenzioni (cosiddetto “professor’s privilege”) in deroga al regime generale delle invenzioni industriali; normativa parzialmente corretta nel 2005. E’ invece del 1999 (D.L. n. 297/1999) la norma che autorizza le università alla costituzione di spin-off, imprese finalizzate all’applicazione dei risultati della ricerca che coinvolgono direttamente il personale degli atenei. E ancora, sebbene alcune università ritengano che il Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica non si applichi alla fattispecie della partecipazione di università ed Enti Pubblici di Ricerca alle imprese spin-off della ricerca, la maggior parte ritiene invece che questa legge ostacoli la partecipazione diretta, nel capitale sociale, a questo tipo di imprese. Alcuni dei modelli di successo esteri prevedono e incentivano la partecipazione delle università alle loro società.

Insomma, da fare c’è tanto per rilanciare il Technology Transfer in Italia e per i fondi per il tech transfer. Per la prima volta cominciamo ad avere le risorse finanziarie adeguate. E’ una grande opportunità e contestualmente una grande responsabilità per chi deve decidere. L’auspicio è di non buttare via l’ennesima buona occasione: siamo un “popolo senza memoria”, ma possiamo ritrovarla.

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Stefano Peroncini
Stefano Peroncini

Venture Capitalist e Serial Entrepreneur. CEO di EUREKA! Venture SGR e membro del Comitato di Investimento di FARE Venture (Fund of Funds da 80Ml€ di Lazio Innova). È stato fondatore e CEO di Quantica SGR, fondo che ha investito nella startup biotech EOS, ceduta all’americana Clovis Oncology per 470ml$

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