Nel corso degli ultimi anni si è assistito a una costante e sempre maggiore diffusione del paradigma dell’Open Innovation, concetto teorizzato per la prima volta da Henry Chesbrough nel 2003 all’interno del libro “Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology”. Anche in Italia, soprattutto tra le imprese di grandi dimensioni, è sempre più ridotto il numero di organizzazioni che decidono di sviluppare innovazione senza guardare ad attori e stimoli esterni ai propri confini aziendali. Secondo i recenti dati degli Osservatori Startup Intelligence e Digital Transformation Academy del Politecnico di Milano, tra le imprese italiane con almeno 250 dipendenti, il 73% dichiara infatti di avere già adottato azioni per incorporare innovazione proveniente dall’esterno (Inbound Open Innovaiton) o sviluppare esternamente opportunità che non si ha modo di sfruttare internamente (Outbound Open Innovation).
Aprirsi verso attori e stimoli esterni è quindi sempre più vitale per le imprese, che hanno la necessità di competere in un ecosistema in continua evoluzione e cambiamento. Solo questo, però, non è sufficiente. Le ricerche hanno infatti anche evidenziato come le imprese che adottano questi approcci riscontrino spesso grosse difficoltà nelle fasi di execution e implementazione effettiva dei progetti all’interno delle organizzazioni. Le innovazioni, soprattutto quelle maggiormente disruptive, devono infatti scontrarsi spesso con strutture non adatte a supportare e sviluppare reali progetti di cambiamento.
Quale percorso bisogna quindi seguire? Le imprese devono riuscire a mantenere l’equilibrio tra due leve differenti. La prima, come già indicato, riguarda la spinta ad aprire i confini dell’organizzazione, a stimolare l’imprenditorialità e a generare investimenti reali in azioni di Open Innovation. La seconda riguarda invece la trasformazione delle competenze digitali, la diffusione di una cultura dell’innovazione e la revisione dei processi interni.
Individuate le due direttive, è quindi necessario seguire un processo di crescita che si dedichi a sviluppare parallelamente entrambe le dimensioni. Dedicarsi esclusivamente all’asse verticale, l’apertura verso l’esterno, porta le imprese ad aumentare il rischio di fallimento dei progetti, che difficilmente potranno attecchire in un’organizzazione che non ha le competenze necessarie per supportarli. Il rischio è quindi quello di creare un “teatrino” dell’innovazione, in cui le iniziative di innovazione sono più una mossa di marketing che un reale mezzo per sviluppare concretamente opportunità e trasformazioni.
All’opposto, dedicarsi esclusivamente allo sviluppo dei processi aziendali e alla trasformazione delle competenze può portare alla creazione di strutture chiuse e non reattive nei confronti di stimoli e opportunità provenienti dall’esterno, causando anche la nascita di sentimenti di frustrazione in quelle persone che sono state in grado di trasformare e sviluppare le proprie competenze, ma che non trovano percorsi adatti a stimolare e incanalare le loro attitudini imprenditoriali.
Trasformarsi in una open company significa quindi agire contemporaneamente su entrambe le dimensioni, sviluppando organizzazioni in cui l’innovazione è cultura diffusa e pervasiva a tutti i livelli, con un chiaro coinvolgimento da parte del vertice, anche tramite adeguati sistemi di misurazione dei risultati e il giusto grado di accettazione del rischio e del fallimento, e con efficaci meccanismi di ingaggio delle persone e incanalamento dei flussi e degli stimoli di innovazione. Un percorso tortuoso ma necessario.