Due domande hanno completamente perso la ragione di essere poste: “Quanti dipendenti ha la tua impresa?” e “Dove sono i vostri laboratori?”.
La Gig Economy si è imposta anche nel Biotech. Le startup si sono “uberizzate”:
– Nessun laboratorio
– Nessun dipendente o quasi
– Accordi per utilizzare spazi nelle università e nei centri di ricerca
– Collaborazioni con grandi aziende…
Risultato: ottimizzazione della gestione del rischio attraverso abbattimento dei costi fissi e flessibilità nella gestione degli investimenti in Ricerca e Sviluppo.
Gli esempi sono molti. In USA Nimbus Therapeutics, con 25 dipendenti, gestisce 5 programmi di sviluppo di cui uno in fase clinica avanzata e un’alleanza con la Big Gilead. Nimbus muove indirettamente altre 150 persone, outsourcing.
Senza andare lontano, in Italia EOS ha tre fondatori, un supporto allo sviluppo e una segretaria; tre programmi di cui uno in clinica avanzata; outsourcing di ricerca all’Istituto Mario Negri, alleanza con la big francese Servier. Exit a 470 milioni di dollari.
Il cocktail esplosivo è possibile miscelando grandi imprese, università e centri di ricerca, venture capital. Tutti vicini vicini, stretti stretti e ben connessi. Basti vedere il fenomeno biotech a Kendall Square (Cambridge, MA). I manager delle Big Pharma attraversano la strada e saltano nelle startup. Le università, poco più in là, spingono i ricercatori a trasferire la loro tecnologia. Il VC si affaccia dalla finestra e invita tutti a salire.
La tendenza è chiarissima in tutto il mondo. L’Italia fa eccezione? Ad esempio cito l’effetto “immobile” (26 mila mq) sui corsi di Borsa dell’incubatore H-Farm (BIT: FARM). Il titolo rantolava intorno ai 0,65$ per azione contro l’euro del debutto di fine 2015 . Pochi sussulti, anzi. Ma ancor prima di posare la prima pietra nel middle of nowhere, le azioni sono schizzate di oltre il 30%. Prodigio. Evidentemente il fascino del mattone ha origini ancestrali negli investitori italiani. E il nord-est rimane terra di capannoni.