Si dice che i processi di sharing economy, o di economia collaborativa, intelligenza collettiva, chiamiamoli come ci pare, siano efficaci quando sono win-win, ovvero quando arrecano un beneficio a entrambi gli attori del processo, chi chiede e chi risponde. E il terzo win nel titolo? Lo scopriremo alla fine.
Appaiono anche qui da noi le prime ombre sulla sharing economy, che è già da tempo un cappello troppo stretto per tutte le teste che dovrebbero trovarvi riparo sotto. Anzi, le ombre ci sono da un bel po’ e molti osservatori informano in merito. Il blog di Gea Scancarello, per esempio, è un avamposto sempre aggiornato sul tema.
I casi Uber e AirBNB dicono, per esempio, che questo genere di imprese può essere (anche) un modo per spillare soldi a poveri disgraziati, impiegando meno persone e facendo margini sbalorditivi approfittando del ritardo dei legislatori. Anche. Insomma, già uno dei due win è andato perso. Difficile arrivare a tre. E allora qual è, o quale può essere, un sistema per capire se un’iniziativa marchiata sharing è veramente sharing?
Davide Zanoni di Avanzi qualche tempo fa, in un articolo individuava tre indicatori sensibili: accessibilità, efficienza, reciprocità. Categorie perfette per interpretare i servizi “fisici” ma, quando parliamo di idee, di partecipazione?
L’accesso in genere è sempre garantito via web o mobile. Direte: “E chi non ha internet?” Bella domanda, talmente bella che merita un post tutto suo. Non oggi.
L’efficienza è difficile stabilirla, nella misura in cui i processi consulenziali elaborano linee di indirizzo. Come capire quanto quelle linee determineranno effetti reali misurabili?
E reciprocità cosa significa? È la ricaduta virtuosa e diffusa – ciò che alcuni chiamano anche Created Shared Value (attorno al cui status è peraltro in corso un dibattito) – che giova sia alle persone che partecipano, sia agli eventuali beneficiari del processo. Il valore apprezzabile della reciprocità è anche perciò un indicatore dell’efficienza. Ma, di nuovo, come facciamo a renderci conto se quel valore ritorna, se lo sforzo collaborativo genera una contropartita utile? E cosa si intende per utilità? Quale moneta ne determina il valore? Cosa significa reciprocamente efficiente?
A Milano hanno provato a rispondere a questa domanda durante l’incontro: “Dalla sharing economy ai festival diffusi. Un modello Milano?”, all’interno dell’iniziativa Milano IN del Comune di Milano. Tre assessori e tanti organizzatori di festival cittadini o, in genere, operatori di processi partecipativi, hanno raccontato esperienze che vanno da Bookcity a 100in1giorno, a Collaborative Week, solo per citarne alcune (il volantino dell’evento si trova sul profilo fb dell’assessore Cristina Tajani, che non conosco, lo dico per fugare pensieri eventualmente maliziosi). È emerso un ruolo virtuoso dell’amministrazione pubblica, impegnata nella costruzione di un’infrastruttura abilitante, che permettesse cioè ai soggetti privati di partecipare alle iniziative tramite accessi resi meno intricati da burocrazie, permessi ecc. Il modello è anzi quello dell’iniziativa resa praticabile, quando possibile, attraverso semplice accesso alle piattaforme online implementate ad hoc dal Comune. E i risultati? Riattivazione tessuto sociale, rigenerazione urbana attraverso l’utilizzo di aree non solo centrali, incentivazione alla pratica della città attraverso eventi che sono creati e non solo fruiti dai cittadini. Il Comune è contento, il territorio si rivitalizza, le persone praticano la città non solo come luogo deputato a ospitare attività lavorativa e trasferimenti casa-scuola-ufficio.
Quindi, quando “devo” partecipare a un processo collettivo? Quando credo che la mia partecipazione avrà un effetto reciproco e diffuso, ovvero premierà i destinatari (win), me (win) e gli estensori (win).
Win-win-win!
fabrizio@oxway.co
P.S. Di ‘sta roba si parlerà a sharitaly a Milano il 9 e 10 novembre e a TED LakeComo il 14. Io ci vado. A entrambi. Venite!