“È più facile ottenere un perdono che un permesso”. A sostenerlo era Arthur Bloch, padre della celebre “legge di Murphy”. Ed è forte l’impressione che abbia soggiornato in Italia, almeno per un periodo.
Al di là delle battute: da quando sono nato, ho sempre sentito parlare di freni burocratici. Nonostante ciò, non sono mai riuscito a trovare dei dati precisi, che ne misurassero l’effettiva incidenza; soprattutto in termini di tempo e denaro. Come molti imprenditori, mi ponevo delle domande: qual è il suo “peso” reale? E poi: quest’ultimo tende a crescere o a scemare, con il passare del tempo?
E ancora: le azioni intraprese per semplificare la macchina amministrativa, sono davvero efficaci o creano ulteriore burocrazia e maggiore confusione?
Per rispondere, Assolombarda ha fortemente voluto un Osservatorio sulla Semplificazione che monitorasse il fenomeno, alla ricerca di numeri esatti. I dati rilevati destano un certo scalpore, e confermano la percezione del mondo delle imprese sulla gravità della situazione:
I. Un periodo tra i 45 e i 190 giorni lavorativi, da dedicare esclusivamente agli adempimenti amministrativi più comuni, attraverso un collaboratore dedicato;
II. Un costo che va dai 160 mila euro di una piccola impresa chimica ai 700 mila euro di una media impresa del settore meccanico. In media, il 4% del fatturato. Una vera e propria tassa occulta, che grava sul bilancio della PMI, principale motore economico del Paese.
Stando a questi numeri, non sorprende che il 58% degli operatori finanziari internazionali indichino nel carico normativo e burocratico la principale causa della scarsa attrattività dell’Italia (Osservatorio AIBE 2014).
Del resto, nell’indice che misura l’efficacia della Pubblica Amministrazione, stilato dalla Banca Mondiale, l’Italia ottiene soltanto 67 punti su 100 rispetto: ben 20 punti sotto la media OCSE.
O si ride, o si piange. E, per non abbandonarci alla disperazione, abbiamo deciso di raccontare le disavventure delle imprese impiegando un fumetto: Storie di Ordinaria Burocrazia (SOB), che cala i racconti -rigorosamente verificati- degli imprenditori in un inferno dantesco, dominato dalle diaboliche insidie di bolli e protocolli.
È il risultato di una selezione di testimonianze significative, riferite in prima persona dai colleghi imprenditori. Sono storie in cui la rigidità e la complessità delle norme, i paradossi insiti nella regolamentazione e nella lentezza, danno origine a un girone infernale fatto di lacci e lacciuoli, che rendono il “fare impresa” un’impresa, se mi si passa il gioco di parole.
È un’idea che mi pare azzeccata, visto che la nostra attività somiglia spesso ad un contrappasso: più si cerca di sveltire e semplificare, più si finisce sommersi da un diluvio di carte. Il più delle volte inutili.
Un esempio eclatante è quello di una grande azienda farmaceutica, che nei lontani anni ’70 aveva inoltrato, all’Autorità competente, la richiesta di “una concessione in sanatoria di grande derivazione di acque pubbliche”. Ebbene, l’iter ha impiegato quarant’anni a perfezionarsi, concludendosi soltanto nel 2014.
LA TESTIMONIANZA
“Abbiamo portato avanti la nostra attività tra tempi di risposta infiniti, continue richieste di integrazioni documentali – di cui alcune smarrite –, aggravata da ripetute richieste di pagamento da parte dei diversi enti coinvolti. I tempi biblici si sono combinati con la difficile comunicazione intercorsa tra noi e la Pubblica Amministrazione, oltre che tra gli stessi enti coinvolti: lunghi scambi di lettere e contraddizioni tra livelli centrali e periferici, e continue sovrapposizioni di competenze. Oltretutto è da evidenziare che sono gli iter amministrativi stessi ad essere contorti e complicati, mettendo in condizione di dover ‘scoprire’ tutto giorno per giorno, senza mai avere una visione chiara, precisa e soprattutto completa”.
Un calvario. Un dramma che deve concludersi una volta per tutte. Da questo dipende una buona parte del nostro futuro. Anche perché, come ricorda Confindustria, un aumento dell’1% dell’efficienza della PA è associata a un incremento dello 0,9% del livello del PIL pro-capite e a un aumento dello 0,2% della quota dei dipendenti. Sarebbe proprio il caso di espletare questa pratica.