La saggezza delle folle

A chi serve (e cos’è) l’ingegnosità collettiva?

Wave è una mostra itinerante sull’intelligenza collettiva voluta da BNP Paribas. La tappa italiana è stata curata da Leonardo Previ. A lui abbiamo chiesto qualche risposta

Pubblicato il 23 Set 2015

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Il premio Nobel Muhammad Yunus durante uno degli incontri di Wave Milano

Siamo tutti generalmente propensi ad accettare che esista qualcosa che si possa definire intelligenza collettiva, a patto che riguardi qualcun altro. Se sono un idraulico, un manager, un creativo, posso accettare insomma che qualcuno eserciti questa cosa molto trendy, a patto che non metta bocca sulle riparazioni dei lavandini, sulla gestione delle risorse umane in azienda, sull’ideazione di uno spot pubblicitario. Io, nel mio campo, sono troppo più intelligente degli altri. Altrove invece ‘sta roba collettiva potrebbe funzionare.

Per fortuna il protezionismo intellettuale non è onnipervasivo. I vertici di BNP Paribas hanno deciso infatti di voler capire meglio cosa significa questa nuvola di sinapsi che ci unisce e potenzialmente ci può migliorare e si sono inventati Wave – come l’ingegnosità collettiva sta cambiando il mondo, una mostra itinerante dedicata all’ingegnosità collettiva che, appena passata da Milano, sta per raggiungere il Senegal, l’India e gli USA. L’edizione italiana della mostra è stata curata da Leonardo Previ (presidente di Trivioquadrivio, una società di consulenza che da 20 anni sviluppa metodi e approcci per innovare radicalmente l’apprendimento organizzativo). E siccome, come diceva un saggio notaio milanese di mia conoscenza, “il miglior tennico è quello che sa che c’è un tennico migliore di lui” (presso una certa generazione “c” ed “n” giustapposte diventano, nel parlato, una doppia “n”), ho chiamato Leonardo Previ e gli ho fatto qualche domanda.

Cosa vuol dire ingegnosità collettiva?
Quando ci troviamo costretti a fronteggiare un imprevisto, dobbiamo ricorrere alla nostra intelligenza; se l’intelligenza non basta, dobbiamo inventarci qualcosa di nuovo; se nemmeno questo è sufficiente, non ci resta che ricorrere all’aiuto degli altri. In una riga: intelligenza + creatività + cooperazione, un connubio unicamente umano che nessuna macchina potrà mai garantire. Insistere sull’ingegnosità collettiva significa uscire dalla logica del talento individuale – buona per un mondo che non conosce le dinamiche dell’evoluzione, che Darwin ha illustrato molto tempo prima dei genetisti, oggi di gran moda – e riconoscere che solo le interazioni con il proprio ambiente e le relazioni con gli altri offrono a ogni persona l’opportunità di dare valore ai propri talenti. Ne parlo dettagliatamente nel mio ultimo libro, Manuale illustrato d’incompetenza manageriale (LSWR edizioni), interamente dedicato al contributo decisivo che le aziende ottengono quando si organizzano allo scopo di valorizzare adeguatamente l’ingegnosità collettiva che circola abbondantemente in ogni impresa. Ogni persona è un giacimento ambulante di risorse inesauribili, ma sono pochi i manager che conoscono l’ingresso della miniera.

Qualcuno ha capito cosa farsene dell’ingegnosità collettiva in pratica?
Lo hanno capito migliaia di generazioni di umani che, durante l’evoluzione della nostra specie, hanno fatto conto principalmente sulla collaborazione ingegnosa per offrire al nostro cervello l’opportunità di divenire quel che è divenuto. Lo ha capito la giuria del premio più prestigioso del mondo, che nel 2009 ha assegnato a Elinor Ostorm il Nobel per l’Economia, in ragione della sua ricerca sui commons, un bellissimo esempio d’ingegnosità collettiva applicata. E, soprattutto, lo capiscono ogni giorno le aziende che inventano nuovi modelli organizzativi per trasformare l’ingegnosità collettiva dei propri dipendenti in un vantaggio competitivo.

Pensi che l’Italia possa essere un terreno fertile per un cambio di paradigma così profondo come quello che descrivi?
Prima che i modelli organizzativi di matrice statunitense invadessero le nostre scuole (nel secondo dopoguerra, con i soldi del Piano Marshall sono arrivate anche le famigerate business school e le corporate universities, luoghi nei quali non esiste alcuna possibilità di comprendere davvero le dinamiche della collaborazione), è stata proprio l’ingegnosità collettiva a trasformare la nostra penisola nel luogo più bello del mondo. Per molti secoli l’Italia è stata la patria dell’innovazione, ben oltre l’irripetibile episodio del Rinascimento, cui fanno incautamente riferimento coloro che non si danno la pena di studiare la nostra storia. Il cambio di paradigma è molto semplice, per avviarlo sarebbe sufficiente smetterla di pensare in inglese e tornare a lavorare in italiano.

fabrizio@oxway.co

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