Nella tempesta giudiziaria che, in diverse parti del mondo, investe Uber, la settimana scorsa si è registrata una sentenza molto interessante. Premetto che non intendo entrare nella discussione sulla liceità del modello di business di Uber, ma solo condividere il ragionamento generale fatto dal giudice sul concetto di innovazione e concorrenza.
Il caso vedeva alcuni istituti finanziari che hanno prestato denaro ai taxisti di New York citare in giudizio la stessa Città di New York. Le finanziarie affermavano che la Città di New York, permettendo a Uber di operare nella metropoli americana, aveva abbattuto la redditività del settore dei taxi “regolari” e determinato un crollo del valore delle licenze sino al 40%. Ciò avrebbe cagionato loro un danno, in quanto i taxisti avrebbero avuto difficoltà a ripagare le somme dovute e, in caso di inadempimento, il valore delle licenze espropriate sarebbe stato di molto inferiore a quello originario.
Il giudice Allan Weiss ha rigettato la causa facendo affermazioni che hanno avuto parecchia eco a livello internazionale. Innanzitutto, ha riportato a livello politico e amministrativo la questione, affermando che “non è compito del tribunale quello di regolare i confliggenti interessi politici ed economici che vengono perturbati dall’introduzione di app simili a quella di Uber”. Inoltre, ha associato sapientemente il concetto di rischio e di progresso tecnologico affermando che “Ogni aspettativa che la licenza taxi potesse costituire uno scudo contro i rapidi progressi tecnologici del mondo moderno non sarebbe stata ragionevole…. In questa epoca, anche nel caso dei servizi pubblici, gli investitori devono sempre essere attenti alle nuove forme di concorrenza che emergono dal progresso tecnologico”.
Sono due affermazioni importanti, e che assumono una particolare rilevanza per il nostro Paese.
La prima frase, per alcuni versi sorprendente per un giudice, afferma il primato della politica e dell’amministrazione pubblica dinanzi alle dinamiche dell’innovazione tecnologica. Secondo Weiss, la politica e la PA hanno il compito di mediare tra i diversi interessi in conflitto, e di adeguare continuamente questa mediazione in funzione delle perturbazioni che vengono indotte dal progresso tecnologico. I giudici, i quali agiscono nell’ambito delle leggi e delle norme, non devono quindi reinterpretarle quando lo scenario che aveva condotto alla loro redazione cambia in modo significativo, se non vogliono rischiare di cadere nell’arbitrio.
Se pensiamo all’Italia, vediamo purtroppo uno scenario nel quale la politica è distratta e poco propensa a decidere, vuoi per l’incapacità di comprendere le dinamiche innovative in atto, vuoi per il peso dato ai sondaggi d’opinione e alle pressioni provenienti dai diversi corpi sociali. Per contro, la magistratura appare ben disposta a supplire a questa mancanza, ma con due effetti spiacevoli. In primo luogo, le decisioni prese sono “povere”, perché il processo democratico è intrinsecamente più ricco e completo del ragionamento giuridico che può emergere in un processo. In secondo luogo, lasciare al tribunale decisioni di questo tipo impone agli innovatori costi e rischi impropri: gli innovatori rischieranno infatti di doversi difendere in diverse sedi, con costi elevati e tempi di risposta lunghi ma, soprattutto, dovendo far dipendere il futuro delle proprie imprese dalle decisioni prese dai giudici nello specifico di diversi processi, peraltro deliberando sulla base di leggi obsolete.
La seconda frase afferma invece che la nostra società si trova immersa in un processo innovativo che comporta rischi, e che sarebbe miope (o forse furbesco) trascurare. Non solo, che questi rischi sussistono non solo per chi innova (e questo è ovvio a tutti), ma anche a chi non innova (e questo è invece meno evidente), essendo l’innovazione una delle normali armi della concorrenza, e pertanto strettamente attinente al rischio d’impresa. Da ciò possiamo trarre alcune considerazioni. In primo luogo, l’inscindibile collegamento tra concorrenza e innovazione: è la concorrenza che spinge a innovare (accettandone i rischi), dinanzi all’alternativa anch’essa rischiosa di non innovare e di perdere vantaggio competitivo. Pertanto, un’economia dinamica e aperta alla concorrenza vedrà imprese disposte a innovare, le quali proporranno e adotteranno nuove soluzioni, mentre sarà poco innovativa un’economia chiusa, nella quale si tende (e si riesce) a proteggere le rendite. Un’economia di questo secondo tipo vedrà con sospetto qualsiasi cambiamento, e tenderà sempre a considerare l’innovatore come un disturbatore o un concorrente sleale, riconoscendo al contempo un “diritto al bail out” al non-innovatore minacciato. Un bail-out che, a seconda dei casi, potrà essere costituito da un sussidio governativo, oppure da una decisione amministrativa o giudiziaria avversa all’innovatore.
Venendo al nostro Paese, si capisce facilmente la difficoltà di tante nostre startup le quali, anche quando propongono prodotti e servizi oggettivamente interessanti, impiegano tanta fatica e tanto tempo a ottenere dalle aziende interessamento, ordini e… pagamenti. In Italia l’innovazione è in crisi non perché manchi l’offerta, ma perché è strutturalmente debole la domanda. D’altra parte, perché innovare e rischiare, quando si sopravvive comunque?
@MarcoCantamessa