Due startup in portafoglio, molte collaborazioni attive con altre nuove imprese innovative e soprattutto la soddisfazione di aver visto crescere il Miroglio Innovation Programm lanciato tre anni fa. «All’inizio il terreno era arido, oggi tutta l’organizzazione è più sensibile e quindi possiamo fare un passo avanti pensando al dopodomani», dice Giuseppe Miroglio, 46 anni, presidente dell’omonino gruppo, che spazia dal tessile al retail passando dal fashion, fondato nel 1947 ad Alba dal nonno che portava il suo stesso nome. Oggi è una della piccole multinazionali del Made in Italy: circa 620 milioni di fatturato, presenze in 34 Paesi, 12 marchi moda.
Giuseppe Miroglio, laurea in Economia e commercio e una grande curiosità per la tecnologia (“ho la Tesla”), è anche un investitore in prima persona e conosce quindi bene l’ecosistema italiano dell’innovazione. In questa intervista ci racconta che cosa c’è “dopodomani” e che cosa sta facendo il gruppo Miroglio per affrontarlo al meglio.
Presidente, cominciamo dal Miroglio Innovation Programm…
Siamo convinti che riuscire a costruire una cultura dell’innovazione sia il punto cardine per essere performanti oggi e più competitivi nel futuro, quindi abbiamo cominciato a creare una struttura dedicata con due anime: promuovere l’innovazione interna e fare scouting sul mercato per portare nuovi stimoli dentro. Non crediamo ai centri di innovazione diversi dall’azienda. La struttura, guidata da Leonardo Raineri, ha anche il compito di gestire le startup, che seguono un percorso parallelo all’azienda.
Come avete cominciato a lavorare con le startup?
Nelle nostre attività di stampa tessuti investiamo molto e da tempo sulle tecnologie digitali che offrono diversi vantaggi, tra cui la possibilità di gestire volumi di produzione ridotti. Volevamo però capire come usarla per proporre nuovi servizi ai clienti. Così l’abbiamo portata in un hackathon e abbiamo sfidato i partecipanti a tirare fuori un’idea innovativa. È uscita fuori una piattaforma che è stata incubata per 6 mesi in H-Farm ed è poi stata assorbita in azienda. A distanza di due anni è un’attività che si avvia verso i 500mila euro di fatturato.
Che cosa fa questa piattaforma e come si chiama?
Si chiama The colour soup e consente di ordinare on line anche pochi metri di tessuto con una stampa personalizzata. È stata la nostra prima startup entrata nel perimetro aziendale. Noi crediamo molto alla personalizzazione dei prodotti contro la massificazione crescente sul mercato, fatta di prezzi bassi e scarsa qualità. E questa convinzione ci ha guidata nell’acquisizione di un’altra startup.
Qual è e che cosa fa?
TailorItaly. È stata acquisita nel 2016 e permette, appunto, di personalizzare qualsiasi capo di abbigliamento: forme, colori, dettagli. Un’opportunità che abbiamo voluto subito portare all’interno dell’azienda. Grazie a questa startup abbiamo lanciato una capsule collection del marchio Fiorella Rubino, MyWay. E l’obiettivo è estendere la possibilità di personalizzazione ad altri marchi del Gruppo.
Lo scouting di startup è finalizzato solo all’acquisizione o avete anche altre forme di collaborazione?
Certo, attualmente collaboriamo con quattro startup in diverse aree di attività: Evo Pricing per il replenishment (il rifornimento, ndr.) dei nostri negozi; Clod3D per le soluzioni di prototipazione; Just Knock per il recruiting; Satispay per i pagamenti che presto introdurremo in tutti i nostri punti vendita. Abbiamo collaborato anche con IcooHunt, che è una piattaforma di trend analysis.
A che cosa vi è servito e vi sta servendo la relazione con le startup?
Ci ha permesso inserire la prototipia 3d nei processi produttivi aziendali. Abbiamo introdotto la tecnologia RFID nella catena nella logistica e nel retail. Stiamo, appunto, cominciando a usare nuove forme di pagamento nei nostri negozi. Sono mille e ci vuole un po’ di tempo ma neanche molto. Quello che però adesso mi sta più a cuore è riuscire a guardare a dopodomani.
Che cosa c’è dopopomani per il Gruppo Miroglio?
L’obiettivo che ci sta più a cuore è portare un vero modello omnichanel ina zienda. L’ecommerce, per esempio, per noi è ancora marginale ma sta crescendo in maniera importante. Ma non c’è solo quello. Dobbiamo imparare a gestire gli ordini generati offline e conclusi online e viceversa. Dobbiamo portare piu tecnologia nei negozi, per poter avere processi di analisi tipici dell’ecommerce. C’è da personalizzare il servizio e non solo il prodotto. Tutto questo genera una proliferazione di dati che saranno da gestire in modo efficiente ed efficace.
Dove vede il cambiamento più rapido nel retail?
Per noi sta cambiando il modo in cui interagiamo con i punti vendita. Da quando abbiamo introdotto Workplace, lo strumento di collaborazione di Facebook, è aumentato lo scambio di informazioni e di esperienze non solo con l’azienda ma anche fra i negozi. Le best practice si diffondono più rapidamente; l’uso delle tecnologie viene condiviso e così si semplificano e si velocizzano processi un tempo molto più lunghi. Lo vediamo anche dalle vetrine…
Non sarà però tutto facile. Quali sono state e quali sono le difficoltà che si incontrano in questi processi di innovazione?
La difficoltà principale in molti casi è la non conoscenza delle cose. E stato necessario avviare un processo di acculturamento, rafforzare alcune aree strategiche con l’inserimento di figure e di competenze dall’esterno. Questo ha generato un volano positivo di cambiamento.
Quattro anni fa sono entrato in H-Farm, attratto dalle startup come modello di innovazione per le aziende consolidate come la nostra. Ho quindi seguito la svolta verso il made in Italy e adesso verso la formazione della realtà creata da Riccardo Donadon.
Ma non si è fermato lì..
No, ho cominciato a fare qualche investimento a titolo personale, come per esempio in Satispay, che è nata nel nostro territorio ed è diventata un bel caso nel panorama italiana.
Ha fatto altri investimenti?
Con gli investimenti diretti sono molto cauto. Perché poi devi seguirli. Oltretutto io sono un entusiasta di natura e devo quindi darmi una disciplina. Faccio invece un’attività di mentor con Reseau Entreprendre ma sempre ad Alba.
Ha quindi rinunciato a fare altri investimenti?
No, ma ho preferito entrare in alcuni fondi di venture capital
Quali?
United Ventures, Techwald che un fondo focalizzato sull’HealtCare , e anche in Milano Investment Partner, una nuova realtà.
Perchè il venture capital italiano continua a restare debole nonostante l’interesse di imprenditori come lei?
La prima causa è che il mercato italiano offre meno occasioni di scalabilità di altri. Quindi avere un ritorno in tempi ragionevoli è molto difficile. L’Italia è un Paese particolare dove probabilmente non funzionano i modelli sperimentati altrove.
Quale sarebbe il modello migliore per l’Italia?
Da noi le startup hanno senso se sono molto legate alle imprese esistenti. Anche le exit si devono immaginare con le aziende consolidate. E il venture capital resta lontano perché segue altre logiche ed è abituato a ben altri ritorni dell’investimento. C’è anche da dire che i fondi di vc tendono a essere polarizzati su Milano e Roma. Se andassero a vedere in provincia, potrebbero trovare molte occasioni interessanti.
Ma le startup secondo lei sono interessate ad essere acquisite da altre aziende?
Io credo stiano cambiando le ambizioni di chi fa startup. Aumenta la consapevolezza che l’innovazione si fa e serve anche in fabbrica. E non tutti pensano di diventare il nuovo Elon Musk.