Effetto Cina

Tracollo dei paesi ad economia emergente?

Ricerche attualissime confermano che le politiche di svalutazione non hanno più l’effetto di stimolare le esportazioni, ma solo di far contrarre le importazioni

Pubblicato il 03 Set 2015

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Un mese di agosto con temperature molto elevate. Crolli, riprese e ricrolli dei mercati azionari, obbligazionari, delle materie prime, praticamente di tutte le ‘asset classes’ (come dicono quelli in the know). Un esempio per tutti: lo Shanghai Composite guadagna il 150% nell’anno che finisce all’inizio di giugno 2015, e poi in tre mesi lascia sul campo due terzi dei guadagni. Prezzi delle materie prime mai così bassi in alcuni casi dal 2009, in altri ancor da prima.

E i cambi? Guerra dei cambi, dichiarano in tanti. ‘Guerra’ nel senso che tutti vogliono svalutare (o lasciar deprezzare) la propria valuta. Negli ultimi sedici mesi, ad esempio, le monete di Russia, Colombia, Brasile, Turchia, Messico e Cile hanno perso tra il 20 e il 50 per cento del loro valore nei confronti del dollaro. La valuta malese e quella indonesiana sono al loro minimo dal 1998, anno della crisi finanziaria asiatica. Ultima, non certo per importanza ma in ordine di tempo, la Cina ha lasciato deprezzare la propria divisa del 4,5% in pochi giorni, innescando un’ulteriore ondata di svalutazioni tra gli emergenti. Come si giustifica tutto ciò? Beh, perché, dice il vecchio adagio, la svalutazione della moneta nazionale fa automaticamente aumentare la competitività internazionale di prezzo delle proprie esportazioni e fa diminuire di altrettanto quella delle importazioni. E infatti gli italiani sono preoccupati per le esportazioni del settore del ‘lusso’. (Chissà perché non si legge di quelle di prodotti della meccanica strumentale, molto più sostanziose in valore e fonte di occupazione di gran lunga maggiore, ma tant’è.)

Questa idea, che le svalutazioni servano a quanto detto sopra, è sostanzialmente sbagliata. O, quantomeno la ricerca, teorica ed empirica, è ormai arrivata alla conclusione che movimenti del cambio, per quanto rilevanti e persistenti, non abbiano più gli effetti che avevano in passato. Ne abbiamo scritto su questo blog (si veda, ad esempio, questo articolo dello scorso 30 aprile, nel quale discutevamo dei possibili effetti del quantitative easing adottato dalla BCE a partire dall’inizio di marzo, effetti tra i quali lo stesso presidente della BCE sperava di trovare un deprezzamento dell’euro che, per l’appunto, facesse da stimolo alle esportazioni di merci prodotte in area Unione Economica e Monetaria.

In quell’articolo noi mettevamo in guardia dal fatto che, affinché un deprezzamento abbia effetti espansivi, deve verificarsi tutta una serie di condizioni, una delle quali è che la reattività della domanda estera di prodotti nazionali sia ‘elastica’, cioè reattiva, al loro prezzo. Ora, chi ci dice che questa elasticità esista e sia ragionevolmente grande? La tesi di fondo, da ritrovarsi nella teoria della frammentazione internazionale della produzione, cui al Politecnico abbiamo contribuito (Baldone Sdogati Tajoli del 2006) è che il modello tradizionale potrebbe funzionare se le merci importate ed esportate fossero prodotte interamente in un solo paese con input generati in quel paese, ma che certamente non può funzionare se, così essendo, i maggiori vantaggi derivanti da esportazioni più competitive vengono in parte o in tutto neutralizzati da maggiori costi degli input importati. Ragionevole, no?

Proprio in questo caldo agosto vengono resi pubblici risultati di ricerche avvalorano fortemente la nostra tesi, e cioè che quando i processi produttivi sono internazionalmente frammentati il cambio perde non poca della sua potenza di stimolo alle esportazioni. il 31 agosto il Financial Times pubblica Global trade damaged by weakness in emerging market currencies, nel quale vengono presentati i risultati di una ricerca condotta dall’FT su 107 paesi. Ovviamente non abbiamo ancora avuto modo di analizzare basi di dati, metodi di ricerca e altre banalità del genere, ma il messaggio che l’articolo ci consegna è importante, perché è un messaggio di portata teorica e politica notevolissima: le svalutazioni, dice l’FT, hanno l’effetto di rendere le importazioni più costose e quindi le fanno diminuire (di uno 0,5% in volume per ogni punto percentuale di deprezzamento della valuta), ma non hanno effetti apprezzabili sul volume delle esportazioni.

Uno studio condotto su 46 paesi (ad economia avanzata e non) da ricercatori della Banca Mondiale e pubblicato poche settimane trova che la relazione tra cambio e volumi di traffico internazionale è tanto più forte (dal lato delle importazioni) e tanto meno forte (dal lato delle esportazioni) quanto più un paese è globalmente integrati attraverso le catene globali di produzione. Novità non da poco: la potenza delle manovre sul cambio sarebbe dunque dimezzata, e oltretutto a farne le spese sono solo le esportazioni! Si vede subito come svalutare diventa allora un modo utile soltanto a chiudere la propria economia al commercio internazionale. Il che mi impone di rimandare il lettore ad una cosa che ripeto da anni immemorabili: i guadagni permanenti di competitività internazionale delle proprie merci non si ottengono, oggi meno che mai, con le svalutazioni, ma con investimenti in ricerca, istruzione, innovazione, produttività. Punto. Invito chi volesse vedere ulteriore documentazione a leggere il mio ‘Italia’ pubblicato il 9 agosto scorso.

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