Dov’è finita la startup con firma digitale?

Tre mesi dopo l’approvazione dell’Investment Compact non c’è ancora il modulo standard per fare società senza notaio. Intanto Gnammo attende un parere dal Mise, che deve anche rispondere all’interrogazione parlamentare contro Cocontest. E D-Orbit… Cronache da un Paese che ha paura di cambiare

Pubblicato il 24 Giu 2015

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Tra il legiferare e il fare c’è di mezzo la burocrazia. Sostenuta dalle corporazioni e dalla paura del cambiamento. Mettiamo in fila un po’ di fatti recenti. E ciascuno tragga le sue conclusioni.

Il 24 marzo il Senato da il via libera all’Investment Compact, che ha istituito la figura delle pmi innovative ma ha anche introdotto la possibilità di costituire una startup senza fare il ricorso al notaio, compilando un modulo standard “rinforzato” con firma digitale. Tre mesi dopo la possibilità resta tale perché non c’è ancora il modulo standard. Evidentemente al Ministero dello Sviluppo Economico non sono riusciti a trovare la quadra fra la semplificazione prevista dalla nuova norma e le pressioni dei notai che sono insorti subito dopo l’approvazione della legge, paventando addirittura infiltrazioni mafiose, furti di identità e peste bubbonica se fosse venuto meno il loro controllo ex ante (si dice così…). EconomyUp ne ha scritto a lungo e chi vuole approfondire la “guerra di religione” fra startupper e notai così come la questione firma digitale ha da scegliere (a proposito, come va letto il prossimo ingresso di uno studio notarile milanese nel nuovo Consiglio Direttivo di Italia Startup?)

► Il Ministero dello sviluppo economico, rispondendo alla richiesta di una Camera di commercio, in un suo parere ha equiparato l’attività di Gnammo, startup che fa social eating e viene valutata circa 3milioni di euro, a quella di un qualsiasi ristorante. Ne discende che chiunque accolga a tavola uno gnammer dovrebbe avere la Scia (si dice così…la Segnalazione certificata di inizio attività). Se le Camere di Commercio e le autorità locali daranno seguito al parere governativo, di fatto uccideranno Gnammo. E così facendo apriranno la strada a Eatwith, che è la piattaforma americana più nota di social eating.

► Il ministro dello sviluppo economico Federica Guidi deve ancora rispondere all’interrogazione parlamentare presentata il 12 maggio da un gruppo di architetti parlamentari bipartisan che, capeggiati da Serena Pellegrino, agguerrita onorevole di SinistraEcologiaLibertà, chiedono di intervenire su Cocontest, startup accusata di “schiavizzare i professionisti” con la sua piattaforma di

crowdsourcing che permette a chi ha bisogno di arredare una casa o un ufficio di lanciare una gara online e scegliere poi la proposta più convicente. Lo chiamano crowdsourcing e non è previsto da alcun ordinamento professionale. Intanto i giovani fondatori di Cocontest sono volati negli Stati Uniti, in un acceleratore di Mountain View, e stanno già trovando nuovi finanziamenti.

► Per finire, ieri 23 giugno Massimo Sideri ha raccontato sul Corriere della Sera l’incredibile storia di D-Orbit, startup che piace alla Nasa, ma che in Italia non riesce ad ottenere un finanziamento di 2,5 milioni di euro concesso da una banca grazie al Fondo di garanzia perché manca dopo mesi di attesa un certificato antimafia, che notoriamente viene considerato indispensabile non solo dalle parti di Houston ma anche tra Giove e Saturno.

E’ troppo facile ironizzare, indignarsi o ricordare che in Estonia si può aprire una società online in 18 minuti, come ha segnalato il commissario al Mercato unico digitale dell’Unione europea, Andrus Ansip, ex primo ministro dell’Estonia, appunto. E sarebbe inutile continuare a prendersela con notati, architetti, tassisti ovviamente, e perché no ristoratori e albergatori. Non serve a nulla condannare intere categorie professionali per il reato di resistenza all’innovazione. I notai sono prevalentemente esattori per conto dello Stato: buona parte del loro costo è costituito da tasse, imposte e balzelli vari. E il loro ruolo di controllo preventivo è speculare a un sistema giudiziario lento e farraginoso. Gli architetti e i notai (o almeno chi li rappresenta) fanno fatica a rendersi conto che la foresta in cui sono abituati a vivere è in via di estinzione. I tassisti difendono il loro tassametro e dopo aver mostrato il lato feroce ora si ingegnano a fare hackathon.

C’è una diffusa paura del cambiamento, a livello sociale, e non conosce confini geografici, culturali, politici e di censo. Ma quel che deve preoccupare è l’assenza di un’iniziativa politica decisa che non si fermi solo alle altisonanti affermazioni buone per un’intervista o un convegno. Che riesca a far diventare le leggi fatti quotidiani. Che incoraggi davvero chi è in grado di creare valore. Che faccia degli enti pubblici veri abilitatori delle imprese e non porti delle nebbie o, ancora peggio, luoghi di sconvenienti maneggi. Perché altrimenti startup policy, fondi di garanzia, fondi pubblici di venture capital e via disseminando resteranno solo slanci più o meno sinceri per far nascere imprese che non saranno mai in grado di diventare grandi. A che serve incubare e accelerare se poi non si mettono i pulcini in condizione di crescere?

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