E’ MOLTO DIFFICILE far accettare a un non-economista l’idea che esista più di una teoria economica. Ed è sempre più irritante (per me) leggere frasi del tipo ‘Gli economisti sostengono…’. Non è vero. Alcuni economisti sostengono una qualche tesi; altri criticano, discutono, irridono, denigrano quella tesi, non la sostengono affatto. Come non bastasse, è faticoso poi far prendere coscienza del fatto che esistono ‘le idee del tempo’, idee che (ovviamente) nulla hanno a che vedere con la verità, ma che purtroppo hanno poco a che vedere anche con la buona economia e con il buon senso (che, mi piace dire, vanno di pari passo). Eppure sono ‘idee del tempo’, idee che vengono spinte all’esasperazione dai mass media, idee che pian piano diventano ‘cultura’ di quel tempo.
Prendiamo la questione del ruolo dello Stato nell’economia. Nella versione estrema della teoria neoclassica, quella sostenuta da chi ha fede (!!) nel mercato, lo Stato è il nemico numero uno del benessere dei cittadini (l’altro è il sindacato, del quale qui non discutiamo). Meglio: lo Stato, nella persona del governo, è l’amico principale dei suoi cittadini fino a che si occupa di garantire un quadro legislativo stabile, la certezza del diritto, il rispetto dei contratti. Ne diventa il nemico quando comincia ad occuparsi di questioni economiche che, dice il paradigma neoclassico in versione integralista, è meglio lasciare alla libera intrapresa privata. Perché? Perché sta ai privati scovare opportunità imprenditoriali e sfruttarle, perché sono i privati a sapere se un’intrapresa sarà profittevole o meno, e le imprese profittevoli ai prezzi di mercato sono le sole che inducono la massimizzazione del benessere individuale e collettivo.
Esiste poi una versione ‘non integralista’ del paradigma neoclassico, secondo la quale ci sono delle aree grigie nel funzionamento delle economie di mercato, aree nelle quali il mercato ‘fallisce’ in qualche senso. Esempi? Beh, ad esempio quelle attività che generano valore non appropriabile, quali la difesa nazionale: io non compro difesa nazionale da un privato perché mi aspetto di beneficiare dall’acquisto della stessa fatto dai miei concittadini, e siccome quasi certamente tutti i miei concittadini pensano allo stesso modo, nessun imprenditore investirà in difesa nazionale. Oppure, usando lo stesso esempio, nessun imprenditore vorrà investire in difesa nazionale perché si tratta di un’attività troppo rischiosa. In un caso come nell’altro i neoclassici non integralisti accetteranno, e spesso solleciteranno, l’intervento dello Stato come investitore nella, e gestore della, difesa nazionale.
Il nostro è il tempo del libero mercato, il tempo in cui trionfa un’interpretazione dello Stato come origine di tutti (o almeno di gran parte dei) lacci e lacciuoli che bloccano le intraprese private che, in loro assenza, fiorirebbero e porterebbero alla piena occupazione. Il tempo in cui trionfa l’idea che una crisi feroce come quella presente si cura con il ritirarsi dello Stato dalla scena economica, con la riduzione cioè del debito e della spesa pubblici. Mah!
In questa cristalleria entra come un elefante un libro. Quello di Mariana Mazzucato. Un libro che presenta una tesi radicale davvero, di quelle che in epoca di trionfo dell’ideologia del mercato articolo di fede (chi vuole può rileggersi Joseph Stiglitz, I ruggenti anni novanta, Einaudi 2004) impongono a chi lo legge una riflessione davvero profonda sul ruolo dello Stato nell’economia. Lo Stato di Mazzucato infatti, non è di quelli che ‘mettono le pezze’, suppliscono ai fallimenti del mercato: esso è motore attivo di sviluppo, innovatore e imprenditore, operatore coraggioso di scelte tecnologiche e imprenditoriali epocali. E’, in breve, uno Stato ‘statunitense’ (e britannico), non europeo. Uno Stato che, per esempio, attraverso la National Science Foundation, identifica e indica i grandi filoni della ricerca innovativa, filoni che invita le Università e i centri di ricerca a seguire e e perseguire.
In Lo Stato innovatore, Laterza 2014, l’autrice si sbarazza dello Stato che sussidia, dello Stato che finanzia, perfino dello Stato keynesiano che spende per il controllo e il rilancio della domanda aggregata. Ella chiede che noi si parli di
“..Stato proattivo, imprenditoriale, capace di assumersi rischi e creare una fitta rete di operatori economici in grado di mettere a frutto per il bene della collettività nazionale il meglio del settore privato…. È lo Stato, nelle vesti di primo investitore e catalizzatore, che fornisce a questa rete la scintilla necessaria per mettere in moto e diffondere la conoscenza. Lo Stato può e deve agire come creatore, e non solo come facilitatore [enfasi mia, FS], dell’economia della conoscenza” (p. 33).
Un esempio? Le biotecnologie. Le quali, mostra l’autrice, negli Stati uniti hanno visto il venture capital cavalcare l’onda del successo, mentre chi l’ha creata sono gli organismi federali, tra cui un ruolo centrale hanno giocato e giocano i National Institutes for Health, gli Istituti Nazionali per la Sanità. Che per la ricerca in questo settore hanno speso 365 miliardi di dollari tra il 1978 e il 2004. Soldi pubblici. Gettito fiscale.
E Apple invece? Nel 2013 Bloomberg ha pubblicato un articolo intitolato Who Created the Iphone, Apple or the Government?:
“Every one of the most important technologies in Apple’s smart products, including the iPhone and iPad, were developed elsewhere and largely thanks to state funding”.
(http://www.bloomberg.com/news/articles/2013-06-19/who-created-the-iphone-apple-or-the-government-).
Ma le recensioni che vorrebbero portare il lettore potenziale a ‘leggere’ il libro senza leggerlo sono noiose. Preferisco dunque sottolineare la potenza intellettuale, economica e politica, di questa visione dello Stato. Un libro ‘da leggere’, come si dice? Posso dire che non leggerlo implica condannarsi a pensare come vuole la ‘cultura’ dominante. Quella stessa che ha creato la situazione in cui siamo.