Scenari economici

Non siamo competitivi perché non facciamo formazione

L’Italia è al di sotto della media europea per le attività svolte e per gli investimenti. Spendiamo 420 euro per dipendente contro i 1100 del Belgio. Le imprese curano poco il capitale umano, soprattutto quelle piccole. Compromettendo così la loro produttività. Non va per niente bene

Pubblicato il 08 Gen 2015

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La produttività delle imprese, e di conseguenza la loro competitività internazionale, dipende dalla qualità del contributo umano e dalla qualità e quantità degli investimenti. Le imprese italiane investono poco in capitale e poco in formazione. In particolare le tanto osannate piccole e medie imprese.

Nei modelli tradizionali di teoria del commercio internazionale, vuoi di tradizione classica che di tradizione neoclassica, si assume che tanto la dotazione di capitale fisico che la qualità del contributo del lavoro siano date. In breve, sono modelli statici. Ma la scoperta che lo Stato può avere un ruolo cruciale nel processo di crescita della competitività ha indotto a pensare a modelli dinamici o, semplicemente, a modelli in cui dotazione di capitale fisico e qualità della forza lavoro possano essere modificati nel tempo grazie a quella che oggi chiamiamo ‘politica industriale’.
Di governo e delle sue responsabilità parleremo in analisi successive. Qui parliamo di imprese e di ciò che esse fanno per nobilitare le conoscenze, le competenze, le potenzialità delle proprie risorse umane una volta che queste siano state acquisite (un altro problema è quello della qualità e delle potenzialità delle persone attratte dall’impresa).

Parliamo dunque di formazione. La Figura 1 riporta la comparazione tra i 28 paesi UE in termini di quante imprese residenti in ciascun paese hanno realizzato nel 2010 formazione per le proprie risorse umane. Bene: lo hanno fatto quasi tutte le imprese in Norvegia, lo ha fatto un 60% scarso in Italia. Ventesimi su ventotto. Sotto la media.

Figura 1. Percentuale di imprese con 10 o più addetti che hanno realizzato attività formativa per i propri addetti nel 2010 in Europa

Fonte: Eurostat CVTS4

La Figura 2 ci dice quante imprese effettivamente ‘programmano’ la formazione in ciascun Paese in rapporto al totale delle imprese ivi localizzate. Si tratta, evidentemente, di un indicatore utile a verificare quanto la formazione ‘stia a cuore’ al management e alla proprietà, quanto essa sia pensata, programmata, inserita in un progetto strutturato: poiché, infine, ciò che conta davvero per l’impresa viene messo a bilancio, no? Bene: 66% in Francia, 30% in Italia. Ancora sotto la media UE28.

Figura 2. Percentuale di imprese che hanno un programma di formazione e/o una voce di bilancio specifica per le risorse dedicate alla formazione (2010)

Fonte: Eurostat CVTS4

A questo punto il lettore acuto osserverà che esiste anche il problema di quanto un’impresa che fa formazione spenda per la stessa: avere tante imprese che fanno formazione spendendo poco non è come….. Osservazione legittima. Figura 3 riporta il costo medio della formazione per dipendente. Questo costo viene valutato da Eurostat ‘a parità di potere di acquisto’, un metodo utilizzato per rendere quanto più confrontabili possibile i costi in paesi diversi (in breve: presumibilmente, il costo di un’ora di formazione in un paese ad alto reddito pro capite sarà più alto del costo della stessa ora di formazione in un paese a basso reddito pro capite).

Figura 3. Costo medio per occupato per la formazione professionale continua nel 2010 calcolato a parità di potere di acquisto, tutte le imprese, nel 2010

Fonte: Eurostat CVTS4

Bene: circa €1100 per dipendente in Belgio, circa €420 in Italia. Ancora sotto la media UE28.

Non va bene. La formazione è strumento per la nobilitazione delle competenze esistenti e per l’acquisizione di nuove e, in quanto tale, è strumento essenziale per migliorare la qualità del lavoro, per la crescita della produttività e della competitività. Non investire in formazione equivale a chiedere di rimanere quel che si è, cioè a diventare obsoleti. Non va bene.

A questo punto il lettore acuto, un’altra volta, potrà osservare che le imprese non sono tutte uguali. Bene. Consideriamo quante imprese offrono formazione distinguendole per numero di occupati. Da questa analisi emerge che la quota di imprese ‘grandi’ (con 250 o più dipendenti) che offre formazione alle proprie risorse umane non varia tra i paesi europei (l’Italia si colloca al di sotto della media europea, 91% contro 93). Ma per le imprese ‘medie’ (tra i 50 e i 249 dipendenti) e, ancor più, per le imprese ‘piccole’ (tra i 10 e 49 dipendenti), si nota una crescente discrepanza tra i paesi, in termini di formazione offerta. Solo la quota di imprese ‘medie’ e ‘piccole’ che offre formazione di pochi paesi (Norvegia, Danimarca, Austria e Svezia) è sempre relativamente elevata – superiore all’80% per le imprese ‘medie’ e superiore al 95% per le imprese ‘piccole’. Per le imprese di altri paesi è evidente il divario di investimenti in capitale umano ‘odierni’ e, quindi, di ‘produttività’ di domani. E quante piccole-medie imprese italiane investono in formazione? Poche rispetto alla media europea! Soprattutto evidente la difficoltà delle imprese ‘piccole’: il 50% di queste imprese non investe in formazione e, quindi, in crescita della produttività. Non va

* Fabio Sdogati è docente di Economia Politica al Politecnico di Milano

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