Innovazione sociale

Meritofobia, non basta avere 30 anni per essere diversi

Il vero problema dell’Italia non è disconoscere il merito ma ostacolarlo. È la denuncia di un libro, “Merito(fobia)”. L’autrice spiega perché succede questo e per quale motivo non basta essere giovani (o donne) per portare valori diversi. Le logiche dell’appartenenza hanno la meglio su tutto…

Pubblicato il 27 Giu 2014

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Si dice che in Italia il merito non venga valorizzato. Ma il vero nodo è che in Italia il merito viene contrastato. È quello che Elita Schillaci, docente di Imprenditorialità, Nuove imprese e Business planning all’Università di Catania, chiama “meritofobia”. Così si intitola il libro che ha scritto con Assia La Rosa: “Merito(fobia) No thanks? (editore Rubbettino). Munedì 1 luglio viene presentato alla Luiss (ore 17, viale Romania 32, Roma) il libro. Con le autrici Elita Schillaci e Assia La Rosa ne parleranno il direttore generale della Luiss Gianni Lo Storto e Matteo Caroli, docente di economia e gestione delle imprese. Ecco il j’accuse che viene lanciato dalle pagine del volume.

Mentre la filiera del demerito prende piede indisturbata, c’è qualcuno che si sbraccia per comprendere con quali e quanti strumenti il merito possa essere arrestato. Al contrario di ciò che pensa realmente, dichiara apertamente di volere onorare il merito, la competenza e la capacità. E più sono pubbliche e convinte queste dichiarazioni, più il bluff sembra funzionare. La comunità non giudica più, forse ha rinunciato da tempo delusa e amareggiata ai sani meccanismi del controllo sociale.

Senza sentimenti né risentimenti, afferma qualcuno. E’ facile convincersi ed autoconvincersi che i principi non servano, che la coerenza sia solo rigidità, che l’etica stia nel numero di volte che ne pronunci la parola e non nel numero di volte che ne tradisci il valore. Basta solo onorare apparenza e forma (a volte neanche più quella) per diventare il profeta del merito, anche se carriera e scelte così meritevoli non sembrano essere.

Oggi il tema del merito improvvisamente è balzato agli onori della cronaca. I talk show televisivi, sempre più show che talk, abbondano di qualunquisti che ipocritamente sottolineano la loro aderenza ai principi del merito e del talento. «Bisogna aiutare i giovani a non fuggire dai nostri territori! I migliori cervelli se ne vanno!! Dobbiamo aiutare la performance!!! Basta con la gerontocrazia!!!!».

Strilloni e portaborse hanno imparato che basta impugnare la falce del merito, per picchiare poi con il martello della meritofobia.

Inesorabilmente, e senza via di scampo, sempre più, giorno dopo giorno, ciò che vale nel nostro Paese è l’appartenenza. L’appartenenza al partito, al club service, alla classe sociale, alla massoneria, alle associazioni di categoria, al gruppo modaiolo, alla nicchia o al branco. E se appartieni da più tempo, da moltissimo tempo, a qualcosa o a qualcuno, e se aderisci trasversalmente a tante, varie appartenenze la tua potenza è smisurata, il tuo successo è assicurato.

Giovani e donne: anche questa è un’equazione che sembra andar di moda. Ma il merito, che spesso veramente e con fatica viaggia in scooter e indossa i tacchi a spillo, viene utilizzato o manovrato da chi i giochi del potere li conosce bene. E molti giovani pensano che basti un curriculum pieno zeppo di certificati, corsi e seminari (ormai s’inserisce anche quello organizzato dalla parrocchia), e una carta d’identità fresca di stampa per essere convinti di poter arrampicarsi e inerpicarsi lungo il potere. Fatto di ammiccamenti al capo, chilometri di servilismo e sgomitate aggressive e tradimentose.

Non basta avere trent’anni, un sorriso smagliante e un tweettio veloce e continuo. E poi essere portatori di valori, fama di potere e metodi mafiosi da fare impallidire per ingenuità anche il forever e geniale young Macchiavelli

Poi per le donne è tutto un gran movimento. «Voi italiani siete i peggiori d’Europa» tuona la Lagarde, efficace e mirabile sintesi di competenza, tenacia e classe femminile. L’Italia ha da sempre rinunciato al talento femminile: e quindi ad una fetta consistente del suo Pil. Decenni di statistiche, womeneconomic e battaglie sul campo per dimostrare che la nostra creatività è una risorsa, la fidelizzazione tipica del genere una garanzia e la flessibilità cerebrale una grande opportunità per il futuro. «Dobbiamo cercare una donna per questa posiszione. Funziona di più. Se poi è carina ancora meglio. Purchè sia ubbidiente. E non rompa. E si adatti a ciò che è stato deciso».

Non c’è, ahinoi, in tutto questo valutazione del merito, ma solo opportunistico utilizzo del genere e della presunta parità, oggi tormentone ereditato dal Sessantotto. Di cui nessuno è realmente convinto. Neanche le donne, che sono spessole peggiori nemiche di se stesse. Non perché si combattono tra loro (come s’intende far credere), ma perché si deprimono, e non hanno più voglia, né forza, di combattere per i loro sogni.

* Elita Schillaci è docente di Imprenditorialità, Nuove imprese e Business planning all’Università di Catania

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