Il caso

Uber, perché non offri un master di digital business ai tassisti (e al sindaco di Milano)?

Gli autisti milanesi sono diventati gli alfieri dell’opposizione all’innovazione. Sbagliano ma non hanno colpa perché non sanno come stanno cambiando i modelli economici. E, intanto, le amministrazioni pubbliche preferiscono temporeggiare

Pubblicato il 19 Mag 2014

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Ma è possibile che un anno dopo si continui ancora a battagliare su Uber? L’episodio di sabato scorso a Milano, gravissimo comunque la si pensi, quando i tassisti della citta di Expo2015 hanno impedito che si svolgesse un dibattito al NextFest di Wired costringendo la country manager della start up americana Benedetta Arese Lucini ad allontanarsi sotto scorta, è l’ultima manifestazione in ordine di tempo  del “baco” che affligge il sistema operativo di questo Paese: una debilitante miscela di corporativismi diffusi e inerzie pubbliche che contribuiscono a sostenerli e alimentarli. Lo sciopero bianco proclamato subito dopo dagli autisti è un’aggavante perché aggiunge illegalità all’illegalità e fa dei tassisti gli alfieri dell’opposizione al cambiamento “a prescindere”, come avrebbe detto Totò.

Ho sentito un tassista intervistato da un tg ripetere uno sconcertante ritornello complottista: “Lottiamo contro le multinazionali americane e la lobby di Goldman Sacs (sic!) che vuole il controllo mondiale della mobilità e distrugge il nostro lavoro”. Siamo alla Spectre! E invece si tratta semplicemente dell’impatto della digitalizzazione su tutti i business, dall’editoria al commercio. Se persino la manifattura sta rivedendo i suoi modelli di funzionamento con le stampanti in 3D, perché i signori tassisti dovrebbe restare indenni e immobili nei loro privilegi?

Vedo che sul web si è scatenata la solita schermaglia sulla buona creanza degli autisti e sul costo delle corse. Tutto inutile adesso, quando le uniche due cose da fare sarebbero comprendere da una parte le ragioni di una categoria che, sentendosi minacciata dopo anni di garanzie, sta esprimendo il peggio di sé e dall’altra spingerla a comprendere le ragioni dell’innovazione e l’ineluttabilità del cambiamento. L’evoluzione Pop di Uber, che arruola chiunque come autista, è la goccia che sta facendo traboccare il vaso ma anche il grimaldello per far saltare definitivamente le regole, passaggio inevitabile prima o poi in ogni business quando la tecnologia corre. Ci si può opporre, ma legittimamente e senza danneggiare i clienti, ma è solo questione di tempo nel percorso segnato dal digitale verso la liberalizzazione dei servizi e la facilità di contatto fra potenziali fornitori e potenziali clienti  Quegli autisti che impediscono ai clienti di salire stanno facendo una cosa semplicemente senza senso: sarebbe come se gli editori non permettesero di comprare i loro giornali a chi legge le notizie su Facebook o nei blog. Farebbero meglio a migliorare la loro offerta, a inventarsi qualcosa che segni la differenza invece di piangere sulla licenza comprata vendendo la casa.

Ma non è colpa loro, perché poco sanno di web, digital economy e mobilità sostenibile. Uber potrebbe offrire ai tassisti (ma anche ai dirigenti comunali e a qualche politico) un bel master del Politecnico o della Boccon. Magari li aiuterebbe a capire che non si avanti con lo sguardo rivolto all’indietro. Cosa fondamentale per chi sta alla guida. Le amministrazioni comunali, a partire da Milano, da parte loro dovrebbe far capire una volta per tutte da che parte stanno e spiegare che si sta parlando di un servizio dove non possono esistono fornitori privilegiati ma solo standard di sicurezza e qualità ai quali devono adeguarsi operatori in grado di reggere la concorrenza e soprattutto l’evoluzione del mercato. Altrimenti finiremo tutti come i produttori di carrozza che videro le prime auto circolare in città come la stramberia di qualche riccone, poi cominciarono a preoccuparsi e protestare. E nel frattempo erano già spariti.

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