Cosa succede se la legge cancella il “fallimento”

Il governo ha dato il via a un ddl delega di riforma del diritto fallimentare che prevede, tra le altre cose, la scomparsa della parola dai codici. Uno stimolo per le startup a non temere di fallire? Cesare Cavallini, del Dipartimento di studi giuridici della Bocconi, spiega le possibili novità della legge

Pubblicato il 16 Feb 2016

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I guru della Silicon Valley lo ripetono fino allo sfinimento: per fare startup, bisogna imparare a fallire. Fallite, sbagliate, cadete: solo così imparerete dai vostri errori e riuscirete a essere imprenditori di successo e a costruire aziende che sbaragliano i mercati internazionali. In Italia, il concetto fa fatica ad attecchire anche perché il termine stesso – “fallimento” – evoca una dimensione personale ed esistenziale che è difficile collegare a qualcosa di positivo.

Adesso, una norma potrebbe aiutare gli startupper di casa nostra ad accettare più di buon grado la cultura del fallimento senza per questo essere additati come “falliti” da chicchessia. Già, perché il governo ha licenziato un disegno di legge delega di riforma del diritto fallimentare che mira, tra le altre cose, a cancellare la parola “fallimento” dai codici per sostituirla con la più morbida “liquidazione giudiziale”.

Allo stesso tempo però, come spiega in questo intervento video Cesare Cavallini, ordinario presso il Dipartimento di studi giuridici della Bocconi, la riforma mira a ridurre la possibilità per le imprese di fallire. Tra gli obiettivi c’è infatti quello di favorire, in caso di crisi, sempre più spesso la continuazione dell’attività di impresa laddove possibile. Potrebbe essere un ostacolo alla cultura del fallimento che tanto sta a cuore agli imprenditori della Silicon Valley?

Non più falliti, ma liquidati

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